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Il virologo Silvestri: la paura vende più della normalità e non sappiamo quanto serva il lockdown

Redazione Redazione 3 anni ago

PILLOLE DI OTTIMISMO. Una rubrica che ha avuto molto successo,durante la prima fase di COVID-19, a cura di Guido Silvestri, ci tiene ora che il lockdown è finito a dare un’ultima analisi “competente” della pandemia.

Guido Silvestri è infatti un virologo ma parla anche da medico che ha guidato un dipartimento di un grande policlinico universitario durante la tempesta di COVID-19, e come studioso attento dei dati epidemiologici ha avuto accesso diretto a molti “big” mondiali del settore.
L’allegoria della barca tra due scogli
L’Italia oggi è come una barca che naviga tra due scogli – da un lato il virus e la malattia da esso causata, dall’altra le conseguenze del lockdown, che non solo si fanno sentire a livello economico, ma hanno gravi implicazioni a livello sociale, psicologico ed anche sanitario.
La “riapertura” (o meglio, l’allentamento progressivo del lockdown) rappresenta una sterzata necessaria per evitare lo scoglio della crisi economica – ma non si può ignorare che questa sterzata fatalmente ci avvicini allo scoglio del virus.
Silvestri ribadisce come in questa fase bisogna usare quattro principi chiave:
  • MONITORAGGIO (ci dice la distanza dallo scoglio “virale”)
  • FLESSIBILITA’ (per cambiare rapidamente direzione, se necessario)
  • COORDINAZIONE (per manovrare in sinergia tra regioni e tra nazioni)
  • PREPARAZIONE (a livello sanitario e sociale)
Il virologo ci tiene a non nominare frasi del tipo:“uso universale delle mascherine”, “distanziamento sociale”, nè tanto meno la distruzione permanente del nostro stile di vita, il cosìdetto nuovo normale.
In questa fase della pandemia, è assolutamente necessario, quindi dare una brusca sterzata lontano dallo scoglio dei disastri economici, sociali, psicologici e sanitari causati dal lockdown, anche a costo di avvicinarsi allo “scoglio virus”.
Analisi di una chiusura 
L’arrivo di COVID-19 è stato uno shock a livello non solo sanitario ma anche sociale e culturale. Ci sono poche cose nel mondo che terrorizzano più di un virus nuovo che si trasmette facilmente da una persona all’altra, che causa una malattia sconosciuta, spesso mortale, per la quale non c’è né una cura né un vaccino.
L’arrivo del ciclone di COVID-19 ha creato paura e sgomento non solo tra la popolazione ma anche tra gli esperti (medici, infermieri, epidemiologi, biologi, etc).
La crescita esponenziale del numero dei nuovi contagi, dei ricoveri ospedalieri ed in terapia intensiva, e poi del numero dei morti, che avveniva in un contesto di sostanziale impotenza e impreparazione dei sanitari, ha creato un devastante fattore di amplificazione del danno: il sovraccarico ospedaliero.
Il sovraccarico ospedaliero – sperimentato in forme simili a Wuhan a gennaio, in Nord Italia a marzo, e poi a New York tra fine marzo e inizio aprile – è stato aggravato dalla frequente infezione degli operatori sanitari, ed ha causato livelli ancora non ben chiari di mortalità secondaria, cioè non dovuta direttamente da COVID-19 (esempio classico: il paziente con infarto che non riceve adeguato trattamento nell’ospedale intasato).
In quel contesto così drammatico ed in situazioni come quella italiana, il “lockdown” era l’unica cosa che si potesse e si dovesse fare. Ma due mesi dopo, con una messe di nuovi dati a disposizione – a livello virologico, immunologico, medico ed epidemiologico – abbiamo il dovere di chiederci se la situazione attuale richieda ancora un tipo di intervento così potenzialmente distruttivo della nostra società.
Le nostre scelte attuali in termini di “lockdown” sono condizionate più del necessario dalla traumatica esperienza del marzo scorso.
Al momento sappiamo molto meglio come gestire i pazienti; conosciamo tanti aspetti della trasmissione e della storia naturale dell’infezione; abbiamo terapie antivirali ed anti-infiammatorie di una certa efficacia, per non parlare del plasma convalescente e del plasma exchange; stiamo sviluppando vaccini molto promettenti.
Nel caso di una eventuale seconda ondata di COVID-19, non ci troveremmo più in una situazione di simile ignoranza ed impotenza di fronte al virus ed alla malattia.
Inoltre la prima “ondata” di COVID-19 ha contribuito a creare un certo livello di immunità tra la popolazione.
Di fronte a questo cambiamento di scenario ci si deve chiedere: fino a che punto gli interventi draconiani delle scorse settimane sarebbero necessari di fronte ad un nuovo incremento dei casi?
Ed è anche doveroso chiedersi: quanto ha veramente “funzionato” la chiusura?
La risposta a questa domanda, che ci piaccia o no, è che non lo sappiamo.
Non sappiamo cosa sarebbe successo se avessimo fatto un “lockdown” meno serrato – come in Svezia, oppure in Florida, oppure ancora nella mia Georgia, dove vivo e lavoro, e dove abbiamo avuto, con un “lockdown” all’acqua di rose, meno di un decimo della mortalità pro-capite lombarda.
Stupisce che nessuno si sia soffermato sugli effetti negativi che il prolungato lockdown (e con esso il prolungato snaturamento della nostra vita sociale ed affettiva) avranno sulla nostra salute psicologica, e su quella dei nostri figli e nipoti.
Quanti suicidi infatti di persone che hanno perso il lavoro e con questo ogni speranza di mantenere la famiglia si sono verificati? Quante violenze domestiche causate dal prolungato isolamento? E casi di depressione o altre malattie psichiatriche causate dai fallimenti e dalle bancarotte? E casi di disturbi cognitivi e della sfera affettiva e relazionale nei bambini e ragazzi a cui viene sottratta la scuola per mesi e mesi? In realtà questi studi esistono, ed i risultati sono molto preoccupanti… ma sono quasi sempre ignorati dai media e dai decisori politici, riporta Guido Silvestri.
Lo scoglio del virus
Come abbiamo scritto sopra, l’arrivo di COVID-19 ha causato un grande shock dal punto di vista sanitario, e non c’ è dubbio che l’infezione abbia già causato a livello globale oltre 318,000 morti nei primi 4/5 mesi del 2020. Se questa cifra è indubbiamente alta, è comunque importante metterla nella prospettiva del fatto che, nello stesso periodo, AIDS, tubercolosi e malaria hanno creato molti più morti.
E’ anche importante notare come la distribuzione dei morti da COVID-19 sia stata estremamente irregolare con poche zone ad alta mortalità: Wuhan; Lombardia, nord Emilia-Romagna e Piemonte orientale; metro New York, Detroit e Boston, Madrid e Barcelona, Ile de France, Guayaquil e moltissime zone a bassa mortalità, anche negli stessi paesi, Italia meridionale,Florida e sud degli USA, Andalusia, sud-ovest Francia, Quito).
I motivi alla base di queste differenze non sono affatto chiari, e collegarli unicamente all’effetto della chiusura è assolutamente arbitrario. Per quale motivo, per esempio, a oltre due mesi dalla “chiusura” ci sono ancora molti più nuovi casi in Lombardia che nell’intera Italia Meridionale?
Perché la Svezia, spesso additata come pietra dello scandalo, ha tuttora una mortalità per 100.000 abitanti inferiore a quella del tanto elogiato Veneto (36.15 vs 37.14)?
Perché uno stato come la Florida, che praticamente non ha mai “chiuso”, sta andando verso la fine della pandemia con una mortalità per 100.000 abitanti che è poco più di un decimo di New York, dove si è praticato un lockdown rigidissimo?
Al di là di queste inconsistenze, è importante ricordare come l’evidenza attualmente disponibile indichi che:
 1 – Tra l’80% e il 90% dei contagi accertati avviene tra degenti molto anziani nelle case di riposo e negli ospedali, medici e infermieri e i loro familiari – analogamente, la mortalità da COVID-19 ha coinvolto in gran parte persone molti anziani con età media 79 anni (mediana 80), già ricoverate in strutture sanitarie od ospedaliere e che per l’80% avevano tre o più patologie gravi preesistenti;
2 – Le infezioni in forma severa sembrano collegate a valori elevati di inoculo virale in ambienti chiusi, dove sono presenti persone malate e dove il contatto con i sani non è episodico, ma ripetuto più volte per una durata di almeno 14 minuti.
La letalità effettiva di COVID-19  ancora non la sappiamo perché tuttora non conosciamo il numero esatto di persone infettate da SARS-CoV-2. Molte stime della letalità  sono tra 1% e 3%, ma rimangono stime.
Quello che invece è lecito presumere è che la letalità di una eventuale “seconda ondata” di COVID-19 sarà sostanzialmente più bassa in seguito a:
  • maggiore capacità di tracciare ed isolare i contatti; 
  • aumentate possibilità di trattare i malati in modo più precoce ed efficace;
  • migliore preparazione a livello ospedaliero (e conseguente assenza di “sovraccarico”);
  • presenza di un certo livello di immunità nella popolazione.
Di quanto sarà più bassa? Difficile dire, ma se verrà confermato che il solo uso del Remdesivir reduce la mortalità di circa il 30%, non è difficile immaginare un taglio secco della mortalità del 60-70% anche senza tener conto dell’introduzione di nuove terapie, tra cui quella molto promettente del “plasma convalescente”. 
Lo scoglio della chiusura?
Si parla in modo incessante e con una straordinaria attenzione agli scenari peggiori della pandemia, si parla piuttosto poco dei danni della chiusura. Guido Silvestri intende sottolineare non soltanto i danni economici, che pure sono ingentissimi, ma quelli a livello strettamente socio-sanitario.
Ignorare il fatto che un paese che si impoverisce, possibilmente fino ad arrivare sull’orlo della bancarotta, ha enormi difficoltà a provvedere un servizio sanitario di qualità. Già adesso tra i danni “collaterali” di COVID-19 c’è la peggior gestione sanitaria di molte altre malattie, come i danni legati alle difficoltà psicologiche causate dall’isolamento di per sé, dalla crisi finanziaria, e dal peggioramento del servizio sanitario.
La vita sociale di bambini e adolescenti
Tra queste mi preoccupano particolarmente quelle causate a bambini e adolescenti, la cui vita sociale è stata completamente sconvolta esponendo la fragilità emotiva e cognitiva tipica dell’età dello sviluppo. Per non parlare dei limiti dell’educazione scolastica a distanza per i bambini delle famiglie senza computer o senza internet, che non può non introdurre un ulteriore, devastante elemento di discriminazione verso i meno abbienti.
Detto tutto questo, il danno più pervasivo e devastante non solo di una prolungata chiusura ma anche di una riapertura perennemente a metà è quello di snaturare in un modo profondamente assurdo e spaventoso la nostra vera essenza di animali sociali, afferma Silvestri. 
Sarebbe questa la vera vittoria di un virus che altrimenti è destinato a perdere la guerra contro la scienza. In questo la metafora di John Iohannidis sarebbe assolutamente appropriata: faremmo come un elefante che infastidito da una mosca scappa via e cade in un precipizio.
L’allegoria dei due scogli: dove siamo adesso?

A che distanza siamo dai due scogli, quello del virus e quello della catastrofe sociale? L’opinione di Silvestri è che siamo ormai abbastanza lontani dalla scoglio del virus, mentre ci siamo pericolosamente avvicinati a quello della catastrofe sociale.

Sul versante del virus ci si è incartati spesso con seri problemi metodologici se non addirittura basati su calcoli sbagliati. Una narrativa che ci porta alla ricerca disperata del tanto agognato quanto inarrivabile “rischio zero” nei confronti del virus mentre ignoriamo rischi molto più gravi ed immediati nel versante della chiusura.

Strumentale a questa narrativa è il cosiddetto catastrofismo mediatico, “dacci oggi il NOSTRO PANICO QUOTIDIANO”, quasi sempre basato su notizie esagerate e/o male interpretate, se non palesemente false.

In base a queste notizie il virus è assurto ad uno status di male quasi metafisico, diabolico, in cui si paventa ogni possibilità terribile, tipo quello che non esiste immunità, che i giovani in realtà muoiono a frotte, che il virus si trasmetta anche nell’aria, all’aperto, ovunque, e che non avremo mai un vaccino perché il virus muta sempre, e naturalmente diventa sempre più cattivo.

Allo stesso modo vengono ignorate o combattute ovvietà virologiche come la stagionalità dei Coronavirus, la loro suscettibiltà alle alte temperature ambientale, la sostanziale stabilità genetica di SARS-CoV-2 e l’evidenza di robusta immunità protettiva.

Si arriva fino al punto di tacciare di “pseudo-scienza” chi osa sostenere una possibile attenuazione del virus, come appare ormai piuttosto evidente dal punto di vista clinico, solo perché non ci sarebbe abbastanza “evidenza scientifica”.

Salvo poi che questo ardente desiderio di evidenza scientifica evapora istantaneamente quando si tratta di dipingere scenari terrificanti per l’Africa, il Sud-Est Asiatico, o l’America Latina – tutti scenari che tranne poche e limitate eccezioni non si sono mai verificati. Ed infatti al di sotto del 35esimo parallelo Nord, dove vive oltre il 65% della popolazione mondiale, si sono registrati meno del 15% dei morti da COVID-19.

Per non parlare dei paragoni fatti sempre in modo tale da assecondare la narrativa catastrofista – pensiamo d nuovo alla Svezia  (10.5 milioni di abitanti, minimo “lockdown”, e 3.679 morti di COVID), che si paragona sempre in negativo a Finlandia e Norvegia, dimenticando che la mortalità pro-capite degli svedesi senza lockdown rimane molto più bassa di quella italiana nonostante i nostri due mesi e passa di chiusura rigidissima.

A sostenere l’importanza di allontanarsi dallo “scoglio chiusura” bisogna non solo essere pronti ad una legittima discussione con quelli per cui siamo sempre e comunque troppo vicini allo “scoglio virus”, ma anche guardarsi alle spalle dal rischio di essere assimilati a certa spazzatura gli entourage demenzial-complottista, sottolinea Guido Silvestri.
Come siamo arrivati a questo punto?

Secondo Silvestri i colpevoli sono tre.

Il primo colpevole è la “politicizzazione” della questione COVID-19, che è stata usata in modo grottescamente strumentale per sostenere un gruppo di potere contro un altro. Un po’ ovunque, chi sta al governo è costantemente sotto attacco per come sta gestendo la pandemia, si è scatenata quindi la corsa a chi chiude di più e per più tempo.

Il secondo colpevole è l’atteggiamento dei media che – pur con lodevoli eccezioni,hanno scelto l’atteggiamento “catastrofista” per il motivo più vecchio del mondo. Quello per cui si fanno più lettori ( e più soldi) raccontando di un uomo che ammazza il figlio piuttosto che di mille padri che i loro figli li educano con amore.
La paura vende molto più della tranquillità.
Il terzo colpevole è un certo “fenotipo” di epidemiologo/a modellista che è stato portato alla ribalta da questa pandemia e che, non so se per deformazione professionale o per desiderio di visibilità o cos’altro, ha deciso di rappresentare il corso futuro di questa epidemia in un modo profondamente pessimistico che in passato sono stati quasi sempre smentiti dai fatti, come i famosi 50.000 morti di “mucca pazza” previsti da Neil Ferguson, che invece nella vita reale furono 177).
In realtà quello che mi sorprende negativamente da questo tipo di approccio epidemiologico è il fatto che si ignorino completamente (o quasi) le caratteristiche virologiche di SARS-CoV-2, i progressi nella terapia di COVID-19, la più efficiente prevenzione dei contagi, l’impatto della
migliorata preparazione ospedaliera, e via discorrendo.
Il medico e virologo Silvestri, continua affermando:

“quando si vedrà, penso piuttosto presto, che il gioco non vale la candela, allora qualche politico italiano si alzerà e dirà: “E’ tutta colpa degli scienziati, noi abbiamo solo seguito i loro consigli”. Beh, io voglio avere la coscienza a posto di averlo detto forte e chiaro, da scienziato e da medico, che su questo approccio pessimista ad oltranza, del “worst case scenario” che non tiene conto di troppe variabili, non sono affatto d’accordo.”

Rischio zero
L’inseguimento del cosiddetto “rischio zero”, che è una chimera alla quale – in ogni altro aspetto della nostra vita – rinunciamo senza alcun dubbio ed ancor meno problemi.
Un esempio? Il fatto che, come società, accettiamo tranquillamente che ogni anno in Italia muoiano ~3.500 persone in incidenti stradali ed infatti nessuno per questo si sogna di richiedere lo stop immediato di tutte le automobili. Mettiamo semafori, cinture di sicurezza, patenti… ma accettiamo un certo rischio e andiamo avanti.
Nel caso di COVID-19 la narrazione catastrofista ha creato la falsa convinzione che niente sia accettabile all’infuori di questo mitico “rischio zero”.
Luciano Butti affronta lo spinoso concetto del “rischio zero” per le scuole:
“Occorre poi la consapevolezza che il rischio zero non esiste. Non esiste per medici, infermieri, autisti dei bus, cassieri, addetti alla raccolta rifiuti, molti liberi professionisti, dipendenti pubblici e privati a contatto con il pubblico, lavoratori di aziende strategiche che non hanno mai chiuso (persone non tutte giovani). Bene, anche la scuola è un’azienda strategica e il rischio zero non esiste nemmeno per insegnanti, personale, bambini e genitori. Questo rischio tuttavia per i bambini è assolutamente trascurabile, mentre per tutti può essere molto ridotto investendo sulla scuola in questi mesi. Abbiamo bisogno, anche per sostenere l’economia, di una scuola e di una sanità migliori e che non si fermino. Non di una società iperassistita, paurosa e sempre servilmente in attesa di favori da parte del potere.”
La soluzione suggerita da Silvestri
Mentre torniamo a fare la nostra vita normale:
Monitoraggio e sorveglianza epidemiologica
Si tratta in altre parole di usare in modo copioso i test virologici e sierologici per determinare sia il ritorno potenziale del virus che lo stato di immunità nella popolazione.
Il tutto attraverso campionamenti capillari e ripetuti nel tempo sulla popolazione, analisi dei dati, e se necessario rapido intervento di identificazione ed isolamento dei contatti, fino al possibile instaurare di zone rosse limitate sia nello spazio che nel tempo. E’ chiaro che si tratta di creare una infrastruttura costosa, ma le sofferenze sia economiche che morali che si potrebbero evitare sono enormemente più alte.
Preparazione
Preparazione, a livello di strutture ospedaliere, di gestione delle RSA, della presenza di personale (medici ed infermieri, in primis) preparato a questo tipo di emergenza infettivologica, con un numero adeguato di dispositivi di protezione individuale, scorte di disinfettanti, ventilatori, letti di terapia intensive, e via discorrendo.
Si tratta di creare una struttura strategica di riserva che consenta – se necessario ed in tempi rapidissimi – di attivare fino a 10.000 posti letto di terapia intensiva in isolamento (due volte e mezzo il picco di ricoveri in terapia intensive per COVID-19 nel marzo scorso), con immediata disponibilità di personale, apparecchiature, etc.
Si tratta, dal punto di vista dei medicinali, di mettersi in condizione di poter usare rapidamente decine di migliaia di dosi di farmaci come Remdesivir, Tocilizumab, Baricitinib e possibilmente altri ancora, insieme a decine di migliaia di sacche di plasma di pazienti guariti e convalescent (che si possono tranquillamente congelare per uso fino a 36 mesi). Anche qui si tratta di fare un investimento costoso per il covid-19, ma anche per altre pandemie che potranno arrivare in mondo sempre più globalizzato.
Conclusione
Noi tutti dunque, secondo il virologo come persone e come società, abbiamo non solo il bisogno ma anche il preciso dovere di tornare a fare una vita assolutamente normale, mantenendo ovviamente quelle buone abitudini di igiene personale che, grazie al virus, abbiamo finalmente imparato.
Lo dobbiamo a noi stessi, ma soprattutto ai nostri figli e nipoti, a cui non possiamo chiedere indefinitamente di fare enormi sacrifici solo per calmare le nostre ansie o per alleviare le paure di leader politici timidi ed incompetenti, consigliati da esperti che non sono in grado di elaborare una strategia generale sul come affrontare la pandemia.
Soprattutto, dobbiamo fare questa scelta di coraggiosa,consapevole e “preparata” normalità basandoci sulla nostra arma migliore: l’ottimismo sereno e razionale che deriva dalla nostra straordinaria capacità di generare ed applicare conoscenza.
 

 

Coronaviruscovid19LockdownpandemiaVirologo

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