La Superlega, tra il mercato asiatico e la generazione fortnite

Immaginata per conquistare i mercati d’Asia e d’Arabia, concepita per catturare il cuore delle nuove generazioni sempre più lontane dal calcio, la Superlega è riuscita nell’impresa di trasformare i potenti dello sport e della politica in paladini dello spirito romantico.

La sua fulminea parabola resta così a metà strada tra l’epopea de L’armata Brancaleone e la moralità di Brutti sporchi e cattivi. Un proclama notturno, uno scisma diurno, il silenzio di un giorno e una deflagrazione popolare, sportiva ed infine politica. Un’abbuffata di moralismo e la Superlega torna ad esser soltanto un’idea, suscitando riso e riflessione come nella tradizione della nostra miglior commedia.

Il disgusto dell’opinione pubblica si è condensato intorno a due favole morali: la meritocrazia e il calcio romantico. In effetti il calcio è l’emblema della meritocrazia: chi gioca meglio vince sempre e il nostro paese ne è la prova. L’Inter vince lo scudetto solo quando decide di giocare a rugby e la Juve lo perde quando si illude di poter giocare veramente a calcio. Nel mezzo poche squadre, con scarso potere e tanta fantasia, che si alternano nello spettacolo ma non vincono praticamente mai nulla. Fuori dall’Italia, la stessa cosa: il merito non ha proprio nulla a che vedere col potere e quindi con la sua più diretta e volgare incarnazione: il denaro. Squadre senza alcuna tradizione, comprate da sceicchi e petrolieri, all’improvviso si scoprono dominatrici lasciando briciole alle concorrenti. Non c’è proprio dubbio: il calcio sì che è una faccenda meritocratica!

Passiamo alla favola del calcio romantico, proferita con gioia dalle bocche mediocri del circo mediatico. Uno sport che dalla nascita delle pay tv in poi ha scelto in effetti di percorrere la strada del sublime e dell’elegia. Con partite ad ogni ora del giorno, sfide europee che ormai si ripetono ogni anno, tattiche forsennate e giocatori diventati delle piccole multinazionali autoreferenziali. Certo se vuoi ritrovare lo spirito di Schiller dietro i parastinchi puoi ancora andare a Crotone, forse a Bergamo o su un qualunque campo della serie B, ma questa è un’altra storia.  

Sotto la superficie morale resta invece una sola verità: l’indebitamento di società ormai sovradimensionate che riconosce soltanto due possibili palliativi. Da una parte la conquista del mercato asiatico e degli altri paesi emergenti, che hanno potere demografico e ancora tanta sete di stanchi costumi occidentali; dall’altra la seduzione delle future generazioni nostrane.

E proprio qui, intorno alla cosiddetta generazione Fortnite e Call of Duty, si cela il grande malinteso, sfuggito all’occhio vaporoso e visionario di Agnelli ed allo sguardo vecchio e affaristico di Florentino Perez. Se si fossero fermati un attimo ad osservare figli e nipoti, oppure se si fossero presi la briga di assumere un sociologo o quantomeno un essere pensante, si sarebbero arresi davanti ad un’amara evidenza. Che il calcio lo puoi spettacolarizzare quanto vuoi, puoi anche allargare le porte di 4 metri o eliminare il fuorigioco trasformandolo in basket o in football americano (che in effetti hanno proprio miliardi di telespettatori dietro la costante rigenerazione di punti e di spettacolo…) ma non entrerà mai nel cuore e nell’attenzione delle nuove generazioni. E perché mai? 

Ragazzini, ragazzi e sempre più adulti che giocano a fare la guerra online si cullano in un grande agio apparente; vedono coniugarsi solitudine e socialità attraverso qualche spruzzo di adrenalina e un pizzico di strategia. Ovvero sono soli, giocano ma sono connessi con altri con cui parlano come a tenere in vita una conversazione fondata sul nulla, ma che permette di mantenere in vita l’unica cosa che conta: il contatto sociale. Sono gli stessi ragazzi che guardano serie ogni giorno e per cui vedere un film è noioso come leggere un romanzo dell’Ottocento. Nuove generazioni che non riescono a guardare per intero le partite della loro squadra e men che meno le grandi sfide tra i miti del calcio moderno.

Perché allora un campionato giocato soltanto da squadre prestigiose dovrebbe attrarli? Lascerebbero la loro postazione davanti a uno schermo e ad un microfono con una mano sempre in movimento, per scendere al pub e trasformarsi in inglesi alticci ed abbracciarsi commossi di fronte ai gol dei nuovi fenomeni? Ovviamente no. Loro guardano gli highlights, le belle giocate, i gol in simbiosi con una percezione sintetica della vita, esperita come un susseguirsi di emozioni e fasi salienti; la logica appunto di una serie o di uno dei nuovi giochi connessi. Guardare una partita allo stadio sarebbe noioso come assistere ad una corrida o a un’antica lotta gladiatoria. 

Inoltre si continua ad ignorare un’altra verità: il calcio è meraviglioso proprio perché non è in sé spettacolare; ne è controprova l’indifferenza americana. È uno sport d’attesa, di tempo dilatato in cui la discriminante decisiva è costituita dall’identificazione e dal simbolo. Il calcio è lo sport che più si avvicina al tempo del romanzo. Lunghe attese, descrizioni (riprese) per farti entrare nell’intreccio, personaggi da odiare e da amare, improvvise accelerazioni, poche azioni sublimi e momenti convulsi per poi sprofondare ancora in un ritmo catalettico e alla fine decretare la consueta spartizione tra vincenti e perdenti, buoni e cattivi.

Risentimento, speranza, illusione e la partita ricomincia all’infinito. Come possono i ragazzi di oggi sentire ancora i fumi di una tale ideologia? Una visione che richiede attesa, pazienza ed identificazione. Se i businessman desiderano davvero stare al passo coi tempi, dovrebbero prevedere un dispositivo in grado di rendere attivi e partecipanti gli spettatori, una protesi che unisca playstation e Champions League, sulla scia di un reality agonistico.  

Allora la domanda è un’altra: e se invece il calcio, quello industriale, così come ogni altra azienda avesse già raggiunto l’apice della sua espansione? La speranza è che il tempo lo condanni all’esatto contrario di quanto previsto dai profeti di Fifa, Uefa e Superlega: ovvero una nicchia più autentica, sempre sostanziosa ma sopravanzata da altre forme di intrattenimento ben più efficaci. Nel frattempo potenti e profeti ci proveranno e riproveranno a creare Leghe, ad inginocchiarsi di fronte alla spettacolarizzazione, continuando a farsi la guerra tra loro. L’armata Brancaleone è appena cominciata.