Noi che siamo andati a Genova per i figli e non ce ne siamo pentiti

“Con quella faccia un po’ così/Quell’espressione un po’ così/Che abbiamo noi che abbiamo i figli a Genova …” recitava in una vignetta l’indimenticabile Bobo di Staino, parafrasando una canzone dell’indimenticabile Paolo Conte, nel luglio del 2001.

Noi siamo la generazione che è andata a Genova perché ce lo hanno chiesto i nostri figli. Quei figli con i quali ci scontravamo tutti i giorni, per le loro trasgressioni improduttive, i rave, le minigonne, i piercing, le occupazioni scolastiche, il mito della droga, la promiscuità sessuale, il rendimento scolastico. Noi sinistra istituzionale, noi femministe impegnate. Non pensavamo nemmeno di andarci, a Genova. Non ci riconoscevamo nell’etichetta no-global come oggi non ci sentiamo no-vax.

Ma credevamo ancora nel ripudio della guerra. Credevamo in un’altra globalizzazione: quella finalizzata ad un po’ più di giustizia e di eguaglianza tra i popoli. Credevamo che lo sviluppo sia un bene ma che di modelli di sviluppo ce ne siano tanti e anche di modi di perseguirlo. Se eravamo no-qualcosa, eravamo no-pensiero unico. Lo siamo ancora. Non avevamo voglia di andare a Genova perché anche i nostri figli ci sembravano troppo unilaterali, portatori di un pensiero unico antagonista troppo simmetrico al pensiero unico egemonico.

Poi è successo quello che è successo. Poi è morto Carlo Giuliani, ragazzo. I figli che erano a Genova, ma anche la generazione intermedia della sinistra istituzionalmente impegnata ci hanno mandato messaggi urgenti: “Venite”. I figli che erano ancora in città ci hanno detto: “Stiamo andando. Venite anche voi”. Era questa una cosa del tutto inedita. Di solito era: “Vado anche se tu non vuoi”.

Punto e basta. Ed implicitamente: “Questa non è roba vostra, voi dei partiti e delle istituzioni; è roba nostra, noi figli delle idee tradite”. Sentire questa richiesta urgente venire dai figli è cosa raramente sperimentata nella storia. E noi abbiamo deciso di partire, all’ultimo momento, sull’ultimo treno utile, sull’ultimo pullman straordinario.

Oggi nei media si moltiplicano le narrative di coloro che a Genova non ci sono andati, e perché e per come non lo hanno fatto. Credo la rimpiangano, la loro decisione di non andarci, e mi dispiace per loro. Quelli di noi che sono andati non se ne sono mai pentiti. Perché sono stati testimoni e a Genova, quando i nuovi media erano ancora agli albori, hanno capito l’importanza fondamentale dell’esserci: non l’esserci dei presenzialisti, l’esserci dei testimoni.

Perché ce lo siamo dimenticati, forse, che i giornali all’epoca hanno taciuto la verità sulle proteste di Genova. Si raccontava di giovani estremisti no-global: anche per questo noi, “adulti e vaccinati” (si diceva proprio così, all’epoca) non volevamo andarci. Non era roba nostra. Poi ci siamo andati e abbiamo scoperto che tutti e tre gli aggettivi erano solo una piccola parte della storia.

Non erano tutti giovani, e nemmeno estremisti e nemmeno no-global. Abbiamo visto famiglie intere con le loro bandiere arcobaleno che all’epoca erano simbolo di pace e non di nichilismo sessuale. Abbiamo visto gli invalidi in carrozzella spinti dai volontari dell’associazionismo. Abbiamo visto le parrocchie ed i circoli Arci camminare fianco a fianco. Ci siamo ritrovati, inaspettatamente, di fronte ad un nostro pacato collega universitario, o una madre di famiglia cattolica, o una giovane consigliera di quartiere della maggioranza rossa e ogni volta, dai due lati, sorgeva l’esclamazione: “Anche tu qui?” Perché pensavamo di essere abbastanza soli, abbastanza minoritari.

Si è dovuto aspettare il day after perché l’Unità pubblicasse in prima pagina una foto gigante che per la prima volta dava conto in maniera adeguata di quella che la manifestazione è stata. Forse, se i social media all’epoca fossero stati più sviluppati, i media mainstream non avrebbero potuto portare avanti così a lungo la congiura del silenzio. Ma erano solo agli albori e si incominciava solo a sperimentarne alcuni effetti paradossali.

Quelli tra noi che a Genova erano in coda al corteo venivano a sapere di ciò che stava succedendo in testa attraverso i messaggi e le telefonate di amici e parenti rimasti a casa che comunicavano loro quello che la televisione trasmetteva. Padri e madri allarmati che parlavano di black bloc e cariche della polizia; figli pacifici e innocenti che narravano di un tranquillo corteo di famiglie. E ci sono immagini che sono rimaste impresse soltanto nella memoria di ciascuno di noi, i cui cellulari rudimentali non erano ancora diventati webcam.

La giovane donne che stringe a sé una bambina, mentre si disperde il fumo dei lacrimogeni e grida rivolgendosi alla polizia: “Noi qui ci siamo venuti con i nostri figli!” O gli strani movimenti in una caserma della polizia, alla quale mi avvicino ingenuamente, durante gli scontri, ritenendo quei paraggi un luogo sicuro, finché ad un tratto intuisco che si tratta invece di un luogo pericoloso. Il ragazzo che ti fa cenno da un portone semiaperto, ti indica il rifugio di un sottoscala condominiale dove ci sono alcuni altri manifestanti e ad un tratto ti vengono in mente scene greche o cilene. 

Oggi con i nuovi media sarebbe tutta un’altra cosa, certo. Nulla più potrebbe passare sotto silenzio. Alcuni mesi dopo il G8 di Genova si svolgeva la tradizionale Marcia della Pace tra Perugia e Assisi, inventata  nel 1961 da Aldo Capitini, un filosofo e pedagogista italiano seguace del movimento nonviolento di Gandhi. Fu una manifestazione così imponente che quando la testa del corteo entrava in Assisi la coda era ancora a Perugia.

I pullman che dovevano raccogliere i manifestanti e riportarli nei quattro angoli d’Italia da dove venivano non riuscirono ad arrivare ad Assisi, dovettero tornare ai parcheggi di Perugia e così molti, dopo aver marciato per ventiquattro chilometri fino ad Assisi ne rifecero a ritroso altrettanti a notte fonda alla ricerca dei loro mezzi di trasporto. Ci andarono molti che non ci erano mai andati.

Ci andarono molti perché vi riconoscevano lo stesso humus valoriale che aveva ispirato il movimento di Genova, la pace, la solidarietà tra i popoli, un’economia a misura di uomo, uno sviluppo rispettoso del pianeta. Ci andarono molti perché nel frattempo c’era stato l’11 settembre e ad ottobre era iniziata la “guerra al terrore” di Bush con i bombardamenti di Kabul. Di nuovo ci fu il silenzio – o quasi – dei media mainstream su quella gigantesca marcia.

Oggi con i nuovi media questo silenzio sarebbe impossibile e le immagini che ciascuno di noi serba nella memoria, o traduce faticosamente in parole, sarebbero video virali sui social. Eppure c’è una cosa che i social non possono dare: si tratta di quella garanzia di autenticità che solo viene dai testimoni oculari e da coloro che hanno condiviso lo stesso spazio nello stesso momento.

Non solo “io c’ero” ma “noi c’eravamo insieme” ci siamo visti e ci siamo riconosciuti e ne testimoniamo. La politica è questa: corpi nello spazio che si riuniscono per condividere parole e azioni (Hannah Arendt) e producono una straordinaria energia che non può essere immagazzinata né tantomeno trasferita in una immagine o un video: tantomeno se si tratta di materia virale ovvero parassitaria, incapace di vita propria. Capace di moltiplicarsi in modo esponenziale ma non di generare nuova vita. E’ per l’urgenza di questa presenza viva di corpi nello spazio che i nostri figli, ci hanno chiesto di andare a Genova. Perché per loro fossimo testimoni.