Tunisia: se ai giornali italiani non interessano i fatti

Il braccio di mare che separa l’Italia dalla Tunisia è il più stretto di tutto il Mediterraneo: questo è un fatto. Sulla rilevanza di questo fatto, invece, le opinioni possono essere discordanti.

Per la senatrice Nadia Gallico Spano, una delle nostre madri costituenti che a Tunisi era nata, si trattava di un fatto rilevantissimo e questa è un’opinione. Si tratta tuttavia di una opinione che per buone ragioni possiamo considerare piuttosto ben fondata e piuttosto autorevole.

E in tal caso logica vuole che ciò che sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo, in casa del nostro dirimpettaio democratico – l’unico nel Nordafrica a cui viene riconosciuta tale qualifica – dovrebbe interessare non poco l’Italia. 

A questo punto il mestiere dei giornalisti sarebbe quello di fornire innanzitutto il maggior numero di fatti che riescono a racimolare sulla situazione tunisina a ridosso degli eventi del 25 luglio. E’ opportuno ricordarlo perché a furia di ripetere il mantra dei “fatti separati dalle opinioni” si tende oggi a dimenticare che compito dei media sarebbe innanzitutto quello di cercare fatti e metterli a disposizione del pubblico.

In Tunisia la sera del 25 luglio il Presidente della Repubblica ha annunciato una serie di misure eccezionali tra cui il “congelamento” (in arabo tajmid) dell’attività parlamentare cui ha fatto seguito il dispiegamento dell’esercito davanti alla sede dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo per impedire l’accesso ad essa dei deputati.

Tutti questi sono fatti incontrovertibili. Così come è incontrovertibile il fatto che Kais Saied abbia ufficialmente dichiarato che tali provvedimenti sono conformi alla Costituzione tunisina in quanto previsti dall’articolo 80.

A questo punto qualunque uomo politico, intellettuale, cittadino riflessivo, oltre che qualunque giornalista, andrebbe a guardare cosa dice l’articolo 80. Ci metterebbe cinque minuti per trovarlo su Internet, altri cinque per leggerlo. Solo che mentre questa, per politici, intellettuali e cittadini, sarebbe una buona prassi – tanto più oggi in cui viviamo con lo smartphone in mano e su di esso verifichiamo in ogni momento qualsiasi cosa, dalle ultime notizie della sera al tempo che farà domani – per il giornalista è puro e semplice dovere.

Lui deve spiegare bene cosa dice l’articolo 80 al politico, all’intellettuale, al cittadino che a lui si affidano e sono anche disposti a pagare le informazioni che egli fornisce. Potrebbe perfino limitarsi a riportarne il contenuto tra virgolette tanto è semplice e chiaro. Tutto il contenuto.

Dopodiché ciascuno farà il suo mestiere. Il politico potrà fingere diplomaticamente di non aver letto quell’articolo, o di averlo dimenticato, e di credere alle parole di Kais Saied e potrà farlo per tanti motivi, buoni o cattivi. L’intellettuale muoverà dai contenuti dell’articolo a concetti generali e astratti, disquisendo in termini analitici o normativi di democrazia, legittimità, stato di emergenza eccetera.

Il cittadino riflessivo e partecipe cercherà di capire cosa si aspetta dai propri governanti in questa situazione nei confronti della vicina Tunisia e eventualmente cosa può fare in prima persona tramite le articolazioni della società civile. Dallo stesso fatto trarranno conclusioni diverse, teoriche e pratiche.

Sullo stesso fatto si formeranno opinioni diverse, giudizi diversi, che potranno essere messi a confronto in modo razionale e dialogico.

Ebbene: qualche giornalista avrà pure riportato il contenuto puro e semplice dell’articolo 80 per intero (è corto corto) ma io non ho trovato nessuno. A giudicare dai resoconti sulla stampa sembra che quelli che l’articolo 80 lo hanno letto si sono fermati al primo paragrafo, in cui si parla di misure eccezionali che il Presidente della Repubblica può prendere in caso di pericolo imminente, previa consultazione del capo del governo e del presidente del parlamento.

Nessuno ha letto il secondo paragrafo che prevede che per tutto il periodo in cui sono in vigore i provvedimenti eccezionali il parlamento debba considerarsi “in seduta permanente”. Né tantomeno sono arrivati al terzo paragrafo che vieta qualunque mozione di censura al governo durante il periodo in questione. Se li hanno letti, quei due paragrafi, non li menzionano.

Non lo fa sul Foglio la brava Arianna Poletti che pur si è presa la briga di intervistare la costituzionalista Sana Ben Achour. Non lo fa sul Domani Youssef Hassan Holgado che di interviste ne riporta un buon numero ma nel merito del contenuto dell’articolo 80 si limita a ripetere le parole dello stesso Kais Saied: “Chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare in prima elementare”. E nessun giornalista che sia andato a vedere le carte, cioè a leggere davvero la Costituzione e denunciare il bluff. 

Il Corriere della Sera ha mobilitato uno dei migliori della sua scuderia, Lorenzo Cremonesi, ma anche lui, ahimé, si limita a dire che l’articolo 80  “prevede la possibilità di disporre di questi metodi”. Sorry, è falso.

Se Saied mente il vostro dovere di giornalisti è smentirlo, soprattutto quando è facile facile. Alessia Grossi, sul Fatto Quotidiano, sceglie come molti la via delle opinioni (qualificate) raccolte qua e là intorno alla costituzionalità o meno dell’agire di Saied anziché fornirci quei tre fatterelli semplici semplici che sono il contenuto dell’articolo 80.

Anche se uno dei suoi intervistati, il blogger Zied El Heni, un fatto lui lo ricorda, ovvero che la Costituzione “prevede di consultarsi con premier e Parlamento prima di agire” (a essere esatti, con il presidente del Parlamento”).

Al Manifesto, invece, del contenuto reale dell’articolo 80 sembra non importare nulla: si limita a raccontarci (Garavoglia) che Saied “ha rilasciato un comunicato con cui dichiarava l’applicazione dell’articolo 80 della Costituzione” e questo almeno è un fatto nudo e crudo.

Fanno tutti meglio, comunque, dell’Avvenire il cui editorialista Giorgio Ferrari scrive papale papale (è il caso di dirlo) che “L’articolo 80 della Costituzione tunisina assegna a Saied … il potere di sospendere parlamento, governo, stampa, emittenti tv in caso di ‘pericolo grave’”. Ohibò! Nemmeno Saied è ancora arrivato a tanto, per quanto riguarda i media si è limitato per ora a far chiudere Al Jazeera e a licenziare il direttore della TV pubblica nazionale.

Chissà se siamo troppo maliziosi suggerendo che Ferrari invece di leggere l’articolo 80 se ne è inventato uno imbottendolo dei suoi desideri inconsci. Nel frattempo la discussione, come prevedibile, è partita: lo si chiama colpo di stato, golpe, quasi-golpe, “oltrepassamento delle prerogative del presidente” o ancora l’ineffabile “interpretazione molto espansiva delle proprie prerogative” (quest’ultimo il capolavoro di Attayar, il partito della Corrente Democratica).

Vabbè, dirà qualcuno, ma alla fine che cosa importa quello che dice l’articolo 80? Alla maggioranza dei Tunisini non importa. Sono contenti di quei provvedimenti. E se è un colpo di stato ben venga. Se non è un colpo di stato costituzionale, è comunque un colpo di stato provvidenziale. Perché impuntarsi sul contenuto di quell’articolo?

Questo modo di fare informazione la dice lunga sullo stato di salute del nostro giornalismo. Ma anche sulle condizioni degradate del nostro pubblico che accetta senza protestare una informazione sciatta a dir poco perché essa lo esonera dallo sforzo di pensare, farsi un’opinione e mettere a confronto opinioni diverse a partire da fatti condivisi.

Ai Tunisini non importa il contenuto dell’articolo 80 della loro Costituzione? Non importa se il loro Presidente mente quando dichiara di applicarlo? E allora? Solo per questo non dovrebbe importare a noi, “Italiani ed Europei”? A fronte di folle festanti la nostra stampa viene esonerata dal minimo – e facilissimo – fact-checking?

Siccome in Tunisia il parlamento si è mostrato inetto, il governo inefficace, i partiti autoreferenziali, i nostri media, il cui compito in una democrazia è quello fondamentale di supporto alla formazione dell’opinione pubblica sono esonerati dal verificare se il Presidente della Repubblica che si è appena appropriato dei pieni poteri stia dicendo la verità o mentendo, prima di discutere eventualmente se ha fatto bene o male?    

E questo proprio in Italia? Allora rinfreschiamoci la memoria. Andiamo indietro di cent’anni. Anche qui è questione di un parlamento inetto o meglio di una “aula sorda e grigia”.

“Nel pomeriggio del 16 novembre 1922 Montecitorio, sede già allora della Camera dei deputati, era gremito … In quel pomeriggio avrebbe chiesto la fiducia il più giovane presidente del consiglio della storia, Benito Mussolini, appena 39 anni, parlamentare da poco più di un anno. … Mussolini esordì evitando di rivolgersi ai deputati con la formula abituale “Onorevoli colleghi” sostituita da un molto meno deferente e più secco “Signori”. Proseguì chiarendo che la sua richiesta di fiducia era solo “un atto di formale deferenza” dal momento che a consegnare il potere nelle sue mani non erano state le istituzioni democratiche ma la parte migliore dell’Italia dandosi “un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento”. Concluse con la famosa minaccia esplicita: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costruire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. …

I deputati umiliati non opposero alcuna resistenza, nonostante gli insulti con i quali i fascisti avevano interrotto i loro discorsi. … Il deputato socialista Modigliani lanciò un solitario grido, “Viva il Parlamento”, che gli valse solo la minaccia aperta di una spedizione punitiva da parte dei colleghi in camicia nera.

In una pausa dei lavori un gruppo di deputati socialisti e popolari si recò da Giolitti per invocare una reazione …  L’anziano leader li gelò: “Questa Camera ha il governo che si merita. Non ha saputo darsi un governo in quattro crisi e il governo se lo è dato il Paese da solo”. 

La vittoria del fascismo fu in parte essenziale figlia del suicidio del Parlamento. La paura dei socialisti da un lato, i giochi di potere dei principali leader dall’altro avevano impedito nel biennio precedente di dar vita a un governo capace di contrastare la violenza delle camicie nere e l’arrembaggio fascista al potere. 

Più volte negli anni passati e in tempi recenti mi è capitato di dire ad amici e colleghi tunisini che invece di studiare solo la storia di Francia e le istituzioni francesi dovrebbero guardare all’Italia. Che invece di immaginarsi la loro Rivoluzione come qualcosa di simile alla Rivoluzione francese avrebbero dovuto guardare all’Italia del post-fascismo: con la sua amministrazione statale piena di ex fascisti che non si potevano licenziare in blocco, con la sua componente comunista che doveva essere tenuta fuori dal governo per via dell’assetto internazionale, con la sua piccola borghesia nostalgica, con le sue Piccole Italiane che stavano ancora versando tutte le loro lacrime su Mussolini, con la prudenza istituzionale dei due storici leader del PCI e della DC a tenere insieme il popolo dei don Camillo e Peppone.

Oggi è altrettanto urgente che in Italia si studi meglio la storia della nostra presenza nel Mediterraneo. Smettendo per esempio di immaginarci che i nostri interessi coincidono con quelli della Francia (come che la senatrice Nadia Gallico Spano non si stancava di ripetere) e di accodarci ad iniziative francesi come quella sciagurata in Libia.

Ma sarà molto difficile che tutto questo avvenga senza un cambiamento radicale della nostra informazione. Senza che i nostri giornalisti si sbarazzino di certi riflessi condizionati quando si tratta della sponda sud del Mediterraneo. Di certi quadri di riferimento concettuali in cui viene calata una narrativa che serve al pubblico quello che vuole sentirsi raccontare.

Sono quei riflessi, quei quadri di riferimento, che fanno sì che espressioni come “conformità alla costituzione” abbiano evidentemente un significato diverso sulle due sponde del Mediterraneo.

Che “legalità” abbia un significato diverso. Il guaio è che da questa disinformazione l’Italia ha solo da perdere, ancora inconsciamente convinta di essere entrata in Europa per benevola concessione delle vere potenze europee, la Francia e la Germania. Stiamo così disperdendo un patrimonio storico, culturale e linguistico consistente che abbiamo in Tunisia dove intere generazioni hanno imparato l’italiano guardando la nostra televisione, dove tutti ricordano commossi Raffaella Carrà. Se il vento cambia in Tunisia non sarà certo a vantaggio dell’Italia.  

Siamo così passati, con queste ultime considerazioni, dai fatti alle opinioni, cioè a conclusioni che si vogliono fondate ma non incontrovertibili. Ma poiché il nostro compito in questo momento è anzitutto di fornire il più fatti possibili, concludo con un altro fatto. Uno degli ultimi provvedimenti presi da Kais Saied è il divieto di assembramento in strada di più di tre persone. E lo accosto ad un altro fatto: questo divieto era uno di quelli che meglio hanno caratterizzato il regime di Ben Ali. Certo, ogni accostamento è già una interpretazione. Ma so per certo che questo accostamento lo hanno fatto oggi, nelle loro teste, moltissimi tunisini.