Ritiro dall’Afghanistan: spartiacque tra colonialismo democratico e tecnocratico

Gli americani e i loro alleati lasciano l’Afghanistan. Insieme ai voli civili e militari forse scivola via l’ultimo colonialismo: quello democratico. Invadere paesi ritenuti strategici, sradicare dal terreno terrorismo e dittatura, estrarre petrolio, gas e litio, innestare libertà e governi democratici, radicare le proprie imprese.

Così i barbari sudditi man mano si scoprono popolo e tutti vissero felici e contenti. Invece le cose cogli anni si sono fatte complesse e il colonialismo democratico si è rivelato troppo costoso e dispendioso, insomma poco profittevole. Si tratta allora della definitiva rinuncia al modello di esportazione democratica? Che fine farà il paravento ideale per consolidare equilibri geopolitici favorevoli? 

Quel che certo è che tra democrazia esportata e asportata, tra import e export restano gli affari da una parte e il caos dall’altra. Pochi dubbi a riguardo. Allora invasioni e conquiste coloniali potrebbero sparire o piuttosto mutare. Questa è la sensazione. Nell’ombra infatti si muove sempre silente e mai addormentata la Cina.

Come tutti sanno, sta occupando intere regioni africane, asiatiche e non solo. Non impone lingua, né modelli culturali o politici. Si limita a costruire strade e palazzi, erigere infrastrutture, creare lavoro e migliorare le condizioni di vita. Una vera filantropia coloniale fondata sulla tecnica e sul suo principio guida: l’efficienza. Esportare benessere per importare materie prime e asservimento pratico. In apparenza nulla di nuovo se non fosse per una mancanza. Il colonialismo tecnico pare rinunciare all’immaginario.

Infatti ogni forma di moderno colonialismo è riuscito a prosperare grazie a due movimenti complementari: con le mani strappare, afferrare e con l’immaginario restituire, plasmare. Da una parte oro, arte, oro nero, litio; dall’altra croce, progresso, democrazia, libertà. D’altronde ogni epoca ha il carburante fantasma che si merita. La logica è piuttosto semplice: il potente di turno occupa terre che fruttano risorse desiderate, senza però potersi abbandonare al ruolo di debole nella relazione di dipendenza.

Ecco allora venire in soccorso l’immaginario del dominante. Subentrano in sequenza verità religiose (monoteiste), scientifiche (l’idolo assoluto del progresso), politiche (il principio unico della democrazia). Così sono gli occupati a diventare dipendenti in quanto deficitari; il dominante infatti possiede qualcosa che va al di là di ogni risorsa terrena: l’immaginario. In sostanza la logica hegeliana del ribaltamento servo-padrone.  

Tutto vero, anche se non si può trascurare la superbia di chi crede fino in fondo nel proprio modello culturale, non come semplice scusa, ma come incarnazione di verità. I cinesi rinunceranno davvero a qualunque forma di verità? A prima vista il matrimonio tra comunismo e tecnica è davvero perfetto. Non ha bisogno d’altro perché entrambi hanno rimosso l’individuo e il suo corpo, sostituiti dal corpo collettivo e sociale dell’indifferenziazione. Nessuna tensione allora, nessuna finalità a cui ambire; l’unico fine reale è la funzionalità, la perfezione del meccanismo. Come potrebbe funzionare il colonialismo tecnico?

La logica è la seguente. L’inizio è consueto, una vecchia storia. Si arriva in paesi barbari, pieni di risorse ma incapaci di gestirle e farle fruttare. Gli stessi paesi che hanno già dovuto sopportare la colonizzazione europea, che ha provato a seminare modelli culturali lasciando soltanto l’imbarazzo del confronto. Anche gli invasori cinesi sbarcano come testimoni di un mondo ricco e lontano. Con una sostanziale differenza però: indossano l’abito di esecutori, non di redentori. Non si dice ai colonizzati: noi vi aiuteremo a dare un senso diverso (superiore) alle vostre vite.

Piuttosto si fa, si agisce, con le mani che sussurrano: vi aiuteremo a rendere proficuo il vostro lavoro e più facile la vostra vita. I colonizzati allora non si troveranno costretti in costumi stranieri. Abiteranno invece uno spazio più comodo, si abitueranno e man mano diventeranno parte di un congegno da cui non potranno più uscire. L’invasore a quel punto avrà partita vita. I soldi investiti daranno sempre più frutti e nuove masse di lavoratori e consumatori alimenteranno il sistema produttivo dominante.

Lo faranno inoltre senza spostarsi: nessuna necessità di emigrazione e quindi fastidio di immigrazione. I colonizzatori si sono limitati a portare i soldi e il lume della tecnica per poi ritrovarsi tutti fratelli comuni del capitalismo. Non comunisti, perché dell’ideologia comunista non c’è più traccia o immagine. Esiste soltanto il suo scheletro. La sua idea è sparita sotto l’ombra della tecnica, che ha ripulito lo spirito coloniale cinese anche di qualunque forma di tracotanza imperiale. Altro che Vietnam, altro che Afghanistan, altro che cinema…Soltanto ordine ed efficienza del colonialismo tecnico.