Il giudice che impedisce il Ramadan a un ragazzo e la fatwa ambigua degli imam italiani

Il Tribunale di Ancona ha emesso un’ordinanza cautelare con la quale stabilisce che la facoltà di decidere sul digiuno del figlio musulmano tredicenne spetti solo alla madre non musulmana. 

I genitori del ragazzo, che frequenta la terza media, sono divorziati e hanno l’affido condiviso, ma mentre il padre è musulmano la madre no, ed è stata proprio la donna a rivolgersi al giudice per chiedere che il figlio non sia tenuto a digiunare durante il mese di Ramadan. 

La madre sostiene che il digiuno debiliterebbe il ragazzo al punto da pregiudicarne i risultati scolastici e l’attività sportiva e che il padre, che non vive con il ragazzo bensì all’estero, debba smettere di influenzare le scelte religiose di suo figlio. 

Si tratta di una sentenza che benchè provvisoria appare come assolutamente inedita in quanto entra nel merito delle scelte individuali in materia di pratica religiosa di un soggetto sì minore, ma comunque in un’età a cui spesso la giurisprudenza riconosce la capacità di autodeterminarsi in molte scelte, non stiamo parlando di un bambino insomma.

Quante volte infatti i magistrati o i servizi sociali hanno addirittura allontanato i figli adolescenti dai genitori musulmani perchè l’educazione impartita ai ragazzi inibiva la loro libera scelta in materia di frequentazioni o di “orientamento sessuale”? Ne deduciamo che i ragazzi sono abbastanza maturi per decidere come e quando uscire, chi frequentare, come definirsi sessualmente mentre non lo sono per decidere se digiunare o meno.

Questo lo sappiamo, accade a causa della delicata posizione di minoranza religiosa poco tutelata, che come musulmani abbiamo nel nostro paese, che ci porta a rapportarci con giudici e assistenti sociali, questi sì, a digiuno di nozioni in ambito religioso, la cui sensibilità verso ciò che è sacro è nella maggior parte dei casi nulla, perfettamente in linea con il pensiero dominante che ritiene la pratica del culto qualcosa di superfluo, sacrificabile.

Si potrebbe parlare della pretesa dei padri di educare i giovani da musulmani quando per le loro scelte di vita non stanno vicino ai figli, ma la cosa che lato comunità più salta all’occhio in questa vicenda è la cosiddetta fatwa dell’Associazione degli Imam e delle Guide religiose che viene presa a riferimento dal giudice per emettere la sentenza, la fatwa infatti afferma: “per gli adolescenti che sono in età di obbligo religioso il digiuno è dovuto salvo che tale pratica li debiliti o arrechi loro danni alla salute o al rendimento scolastico, specie nel periodo degli esami…”

Questa affermazione è molto problematica per tre motivi: mentre il concetto di danno alla salute è chiaro e facilmente determinabile, quello di danno al rendimento scolastito è troppo ambiguo e relativo. Inoltre mentre il primo trova riscontro nella dottrina e nel diritto islamico il secondo a mio avviso cozza decisamente con tutta la ratio del digiuno e della pratica religiosa in generale, che stabilisce una gerarchia tra ciò che è dovuto a Dio e ciò che invece è dovuto alla vita terrena.

In questo caso la gerarchia viene capovolta, con lo stesso criterio potremmo dire che un lavoratore è esentato perchè non ha abbastanza forza, non è abbastanza concentrato, per non parlare di uno sportivo. Potremmo anche giungere ad affermare che se le cinque preghiere riducono la produttività lavorativa si possano posticipare tutte oltre l’orario di lavoro e così via.

Il terzo aspetto problematico del parere dell’Associazione degli Imam riguarda l’opportunità di pubblicare un testo così ambiguo e non adeguatamente argomentato senza considerare le possibili strumentalizzazioni che ne possono essere fatte, mettendo così in difficoltà le famiglie musulmane.