Secondo Nature bere, anche poco, danneggia il cervello, l’unica via è l’educazione alla salute

L’ultimo studio pubblicato su Nature Communications il 4 Marzo scorso sugli effetti del consumo di alcol ha riaperto il dibattito sul tema. Che il consumo di alcol abbia delle conseguenze negative sulla salute umana e anche in termini economici non vi è dubbio alcuno.

L’alcolismo è considerato uno dei più diffusi disordini mentali al mondo. Il consumo cronico di alcol costituisce un cofattore importante di numerose patologie che riguardano un po’ tutti gli apparati del nostro organismo, nonché una concausa di specifiche patologie come quelle tumorali.

Che il suo consumo cronico in importanti quantità sia associato ad un danno cerebrale permanente è già noto da tempo, ma chi non ha sentito mai anche medici affermare che “un bicchiere di vino ogni tanto fa bene alla salute”, con questo sdoganandone il consumo cosiddetto moderato. Lo studio in questione “Associations between alcohol consumption and gray and white matter volumes in the UK Biobank sembra mettere fine a questo incauto ottimismo.

Lo studio 

Se infatti finora gli studi a proposito degli effetti del consumo moderato di alcol sul cervello non hanno dato chiare evidenze, sia in ragione delle sempre migliori tecniche di indagine della macro e micro struttura cerebrale, sia grazie all’insolito grande numero di soggetti studiati in questo studio, più di 36.000, questo lavoro ha la forza di dirimere con una certa autorevolezza la questione: l’alcol anche in piccole quantità è causa di un danno cerebrale diffuso.

Come un po’ tutti gli studi simili anche il nostro ha dei limiti che ne potrebbero mettere in discussione l’interpretazione, come ad esempio il fatto che esso prende in considerazione solo persone di mezza età e non i giovani, e solo la popolazione inglese, cosa che potrebbe contenere elementi o cofattori ambientali confondenti i risultati, come pure il fatto che il consumo di alcol associato a ciascun partecipante è stato assegnato per autodichiarazione e prendendo in considerazione solo l’ultimo anno e non tutta la storia passata dei soggetti.

Anche sulla permanenza del danno si potrebbero sollevare obiezioni, perché alcuni studi mostrerebbero un certo recupero del danno dopo la cessazione del consumo, aspetto questo non ancora indagato a sufficienza. Tutto ciò per ribadire come l’interpretazione dei dati scientifici in medicina, anche quelli più eclatanti, come quelli emersi in questo lavoro, vada fatta sempre “cum grano salis” per la sua giusta ricaduta nella vita pratica.

La nostra interpretazione dei dati emersi dallo studio, che potrebbe essere considerata estensiva da alcuni, è che il consumo di alcol sia associato ad un danno cerebrale direttamente proporzionale al consumo delle stesso a prescindere dalla dose, in altre parole più bevi più sarà importante il danno cerebrale non essendoci una quantità di alcol che non sia tossica, almeno per il nostro cervello.

Il danno cerebrale infatti non è solo quello macroscopico, ovvero quello relativo ad una diminuzione delle dimensioni di un po’ tutto in cervello, ma anche quello microscopico, cioè quello nella organizzazione delle interconnessioni tra le diverse popolazioni di neuroni. È verosimile pensare che questo valga per tutte le età.

Questioni di salute pubblica 

Sono certo che se a qualcuno venisse in mente, in ragione dei risultati di questo studio, di considerare una politica proibizionista sull’alcol, verrebbe preso per matto. Ma allora come si dovrebbe comportare chi ha la responsabilità di presiedere alla salute pubblica? Innanzi tutto la responsabilità della salute pubblica non è compito esclusivo dello stato ma anche i medici con le loro rappresentanze, per legge, sono strumenti sussidiari e concorrenti a tal fine.

La Storia ci insegna come proibizionismi di qualsiasi tipo non siano politiche facilmente percorribili quando si scontrano con i costumi e le esigenze della popolazione, vedi proibizionismo dell’alcol all’inizio del ‘900 negli USA o ancora la questione della legge sull’aborto in Italia, specie nella popolazione delle moderne democrazie, la quale si sente chiamata a condividere e quindi a comprendere le scelte governative.

Ci sono state questioni come ad esempio quella dell’amianto, che hanno seguito una via prevalentemente giudiziaria, mentre alcune iniziative come gli screening di massa per la prevenzione di alcune patologie, nascono dalle pressioni esercitate dal mondo medico piuttosto che essere primitivamente iniziative politiche. Bisogna ricordare il contesto, ovvero che ci sono stati, come il nostro, che lucrano sull’industria del tabacco sui cui danni in termini di salute pubblica non c’è bisogno di commento.

Non ultimo bisogna considerare il diritto individuale a disporre del proprio corpo e ad autodeterminarsi, questione ineludibile e fondamentale. Insomma il tema della salute pubblica è un tema complesso in cui lo Stato ha il compito di mediatore tra diverse parti più che quello di unico decisore, diversamente si entrerebbe all’interno di una dittatura sanitaria fatta in nome della salute.

Educare alla salute 

Come reagirebbe la popolazione Italiana se lo stato improvvisamente vietasse il cibo spazzatura e quindi facesse chiudere fast food e simili? E se nel contempo obbligasse tutte le persone sopra ai 30 anni a sottoporsi obbligatoriamente a colonscopia? Non si pensi che simili possibilità siano poi così lontane dal possibile nel mondo occidentale. Forse non tutti sanno ad esempio che in Australia il fumo di sigaretta è vietato per coloro nati dopo il 2000. È accettabile, è giusto? Questo interrogativo apre una questione a cui è sempre più urgente rispondere dopo la vicenda dell’epidemia di COVID19, dove con la legge sull’obbligo vaccinale è successo esattamente questo e molto di più.

È successo che la popolazione è stata persuasa in modo fraudolento o obbligata a sottoporsi ad un trattamento, per di più sperimentale, in nome di pareri scientifici che poi si sono rivelati erronei.

L’educazione della popolazione quindi, in un clima di libera scelta, sui temi della salute individuale e collettiva, è l’unica via per trovare nel futuro un corretto equilibrio tra salute pubblica e una scienza che per sua natura rischia di essere strumentale a interessi diversi da quelli auspicabili.