Cosa non si dice sulla fine del fascismo in Italia: 25 Aprile, tra liberazione e guerra civile

Il 25 aprile è ormai alle porte. Questo è un anniversario importante; ottant’anni dopo, otto decenni trascorsi da quell’aprile di sangue. La festa della Liberazione, che segna per l’Italia soprattutto la fine della tragedia della seconda guerra mondiale, è una ricorrenza, come qualcuno già ha fatto notare, con una caratteristica speciale; a differenza di altre ricorrenze, si pensi ad esempio al 4 novembre che segna la vittoria italiana nel primo conflitto mondiale, o alla partenza dei mille garibaldini da Quarto, invece che sbiadire con gli anni, invece che smarrirsi nella memoria del tempo che inesorabile corre e va, sembra al contrario vivificarsi, prendere forza, una forza soprattutto evocativa e polemica; sembra in una parole rinvigorirsi, ogni anno che passa sempre di più.

Anche se per un certo mondo intellettuale e politico che si colloca a sinistra dello schieramento politico italiano, si pensi per esempio ai libri di Scurati, il fascismo costituirebbe una minaccia sempre attiva e costante, il fascismo è morto e sepolto da ormai ottant’anni; esso viene immancabilmente evocato e in qualche modo resuscitato proprio da un antifascismo che sembra averne bisogno per dare una ragione a se stesso, una ragione alla sua stessa esistenza.

Al di là di ogni commemorazione ufficiale, oltre all’immancabile ondata retorica,  che fra un po’ di giorni ascolteremo alla radio, alla televisione, su tutti i media che contano, della gloriosa riconquista della libertà e della democrazia, in quel fine aprile di ottant’anni fa, la guerra civile italiana, perché questo fu, sfociò in un’orgia di sangue e di vendette fratricide.

Non ci fu solo quella che lo stesso Ferruccio Parri, uno dei capi storici del migliore antifascismo, definì la “macelleria messicana” di piazzale Loreto a Milano; cioè la macabra, e diciamolo pure, orrenda esposizione delle salme di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fascisti mitragliati il giorno prima sul lungolago di Como, a cui si aggiunse il cadavere di uno spaesato Achille Starace, gerarca in disgrazia, scomparso ormai da anni dalla scena, colpevole di aver avuto l’infelice idea di andare, in quei giorni di fuoco, in tuta da ginnastica, a far jogging per le vie cittadine, e mal gliene incolse, poiché qualcuno lo riconobbe; fu fermato infatti, arrestato, rapidamente giudicato, e poi seduta stante accoppato, e appeso al distributore di benzina di piazzale Loreto a penzolare, attaccato per i piedi, a far compagnia al suo Duce.

No, come hanno raccontato i libri di Gianpaolo Pansa, un giornalista proveniente da media per bene e che contano, e per questo quantomeno non ignorato come accadeva ai lavori  di un ex repubblichino come Giorgio Pisanò, a fine di aprile di quel 1945 non fu solo il sangue di Mussolini e dei gerarchi responsabili del ventennio fascista a scorrere.

Quella primavera vide a fiumi il sangue di migliaia di italiani, fascisti o presunti tali, -stabilirne il numero esatto è oggi impresa ardua, ma sicuramente si trattò di decine di migliaia di vittime- che nelle regioni del nord Italia incapparono nella vendetta partigiana.

Quel fiume di sangue, quella vendetta esercitata a livello di massa su un nemico ormai inerme, andò ad aggiungersi agli anni della guerra; all’orrore di bombardamenti aerei dei cosiddetti “liberatori” che si erano accaniti sulle città italiane incuranti dello strazio causato alle popolazioni civili, alle centinaia di migliaia di soldati caduti sui fronti di quella terribile guerra, che l’Italia rovinosamente perse,  anche se quando si commemora il 25 aprile pare l’abbia vinta, alle donne di tutte le età che furono stuprate in massa dalle truppe coloniali, ma non solo, risalenti con gli alleati la nostra Italia, e su cui generalmente i nostri media e i nostri politici, presidente della Repubblica in testa, sorvolano.

L’Italia fu l’unico paese tra i tre dell’alleanza detta dell’Asse, cioè Roma, Berlino e Tokio, in cui si svolse una sanguinosa guerra civile. Germania e Giappone subirono una distruzione superiore a quella subita dal Bel Paese; le città tedesche furono martoriate da bombardamenti criminali che le ridussero a cumuli fumanti di macerie con milioni di vittime civili, il Giappone tra gli altri orrori ebbe anche il “privilegio” di sperimentare per primo nella storia umana un bombardamento atomico, ma non ci fu in Germania e neppure in Giappone guerra civile.

Invece in  Italia… In Italia il 25 luglio del 1943 un colpo di Stato ispirato dalla monarchia, dal re Vittorio Emanuele III, che si illudeva così di salvare il trono, depose Mussolini e con lui terminò almeno provvisoriamente il regime fascista, e tenendone l’alleato tedesco all’oscuro, il governo italiano a capo del quale il re aveva messo il generale Badoglio, un vecchio militare di carriera con un passato che lo aveva visto condividere tutte le imprese del fascismo, in particolare l’impresa coloniale, intavolò negoziati con gli anglo-americani ormai sbarcati in Sicilia da dove sarebbero poi partiti per risalire la Penisola.

L’8 settembre successivo, gli alleati da radio Algeri, infischiandosene delle prevedibilissime conseguenze che avrebbero messo in grave difficoltà nei confronti dell’ex alleato tedesco il governo italiano, annunciarono per radio che l’Italia aveva concluso con loro un armistizio. La storia seguente è arcinota: il re e la sua corte si misero rapidissimamente in salvo abbandonando le forze armate e l’intero Paese alla rabbia dell’ex alleato tedesco che ovviamente non la prese bene. Fuggirono prima a Pescara per poi imbarcarsi su una corvetta della marina che li sbarcò a Brindisi dove si consegnarono agli alleati.  

Poco tempo dopo, il governo italiano del sud, sotto la potente protezione anglo-americana, dichiarò guerra alla Germania. In un arco di tempo di circa tre mesi- la dichiarazione di guerra alla Germania è del 13 ottobre del 43-, la giravolta si completava e l’Italia, perlomeno quel che ne rimaneva, si schierava a fianco di quelli che erano stati i suoi nemici durante tre lunghi anni di guerra, gli anglo-americani.

In quel 43, nell’Italia ancora in mano ai tedeschi, dove si era insediato un governo fascista repubblicano presieduto dal vecchio dittatore Benito Mussolini, con le prime nebbie d’autunno iniziò una lancinante guerra civile che ebbe per principali artefici i comunisti.

La setta comunista ebbe il controllo e di fatto il dominio di tutto quel movimento di lotta armata contro il regime nazi-fascista insediatosi al nord della Penisola; i comunisti ne furono gli strateghi e gli artefici; ne furono l’anima.  Furono loro nelle settimane successive all’8 settembre ad organizzare i primi attentati gappisti. Uscendo dall’ombra per colpire e per rientrarvi subito dopo, uccisero a rivoltellate fascisti di secondo e di terzo piano. Fu quella una strategia volta a suscitare rappresaglie e reazioni sconsiderate che avrebbero nel loro intento dovuto innescare il ciclo infinito della violenza per arrivare a quella rivoluzione proletaria che avrebbe poi dovuto fare dell’Italia uno Stato socialista in orbita sovietica. L’incontro a Yalta dei rappresentanti delle potenze vincitrici, Churchill, Roosevelt e Stalin, decise però diversamente.

Senza i comunisti liberati a migliaia dopo il 25 luglio dal carcere e dal confino, e senza il cambio di alleanza operato dal re e dal suo governo, nessuna Resistenza, o guerra civile, sarebbe stata possibile in Italia.

Il nostro Paese avrebbe sicuramente perso la guerra come accadde a Germania e Giappone, Stati ben più potenti e strutturati del nostro, ma si sarebbe risparmiato lo strazio di una guerra fratricida crudele e spietata che ebbe come risultato una profonda lacerazione del tessuto sociale e politico italiano e che a ormai ottant’anni di distanza, benché ovviamente e fortunatamente non in un modo altrettanto drammatico e violento, in un certo modo continua.