Un giorno andrò alla Mecca e lì rivedrò mio figlio Giuliano, caduto in Siria sette anni fa

Se Dio vorrà, anch’io prima o poi riuscirò a partire per l’Hajj, il pellegrinaggio che ogni musulmano, qualora ne sia idoneo fisicamente e abbia le risorse necessarie, almeno una volta nella vita dovrà intraprendere.

Ho visto molte immagini e filmati della Mecca e del complesso della moschea Masjid al-Haraam , il luogo dove sorge quel grande cubo avvolto da un telo nero ricamato in oro, nel quale è incastonata la pietra nera, intorno al quale camminano milioni di esseri umani, provenienti da tutto il mondo, in preghiera e in venerazione. Ho visto immagini e filmati, ma nessuna immagine, nessuna sequenza riesce a rendere giustizia a quello che con la mente e con il cuore pensiamo e vediamo. 

Di mio figlio, mai più ritornato dalla Siria, dove era andato a fine novembre del 2012 per unirsi ai ribelli, mi sono rimaste poche cose; qualche suo indumento, un paio di guantoni da boxe che usava per praticare quelle arti marziali che amava, qualche libro sull’Islam, il tappeto sul quale pregava, e per fortuna moltissime fotografie e qualche filmato. Gran parte di quelle fotografie sono miei scatti. 

Qualche tempo dopo la sua nascita, avevo comprato, in occasione di un mio viaggio di lavoro ad Hong Kong, una Nikon, una bella reflex, una di quelle macchine fotografiche dove ancora bisognava inserire la pellicola che doveva poi essere portata, a meno che non si avesse in casa un piccolo laboratorio domestico, in un negozio di fotografia per essere sviluppata e stampata. Il mondo digitale, che tutto avrebbe cambiato, era alle porte, ma io non lo sapevo e ritornai in Italia felice ed orgoglioso per quel mio acquisto. La Nikon l’avevo in pratica usata solo per fotografare quel mio bambino biondo, quel mio bambino dal sorriso facile. 

Portavo sempre con me, ovunque andassi, quando viaggiavo, cosa che allora mi capitava spesso, per porla sul comodino al fianco del letto, una foto incorniciata di mio figlio ancora piccino. Detestavo quegli alberghi dove alloggiavo, in quegli anni di viaggi per conto dell’azienda, con diaria giornaliera e rimborso spese a piè di lista. Non amavo quei non luoghi, quei posti tutti uguali, con arredamenti simili, se non identici, con quella moquette allora ancora in voga, e lo stesso odore in qualsiasi paese mi capitasse di andare: Sheraton, Hilton, Carlton, Dan hotel, Oberoi eccetera; in Marocco, Tunisia, Bangladesh, India, Israele e ancora altri paesi esotici e l’elenco sarebbe lungo. Mettevo la foto di mio figlio sul comodino per dimenticare che mi trovavo in una stanza che non mi apparteneva, dove mi sentivo totalmente estraneo e dove mi capitava spesso al mattino di svegliarmi chiedendomi per un attimo dove mi trovassi. Ne avevo una anche in occasione di un mio viaggio, verso la metà degli anni 90, sempre per lavoro, in Israele, a Tel Aviv. 

La foto lo ritraeva, bambino di tre quattro anni al massimo, davanti alla chiesa del Gesù, in piazza Matteotti a Genova, con quel suo sorriso che sembrava esplodere; indossava una bella giacca a vento rossa che gli stava benissimo. La dimenticai in camera e quando me ne resi conto, chiesi al tassista di riportarmi indietro immediatamente, in tutta fretta, ma non ci fu modo di ritrovarla. Questione di un’ora, forse qualcosa di più, ma la foto e la sua cornice erano sparite, forse gettate via da una cameriera che, magari di malumore, quel giorno aveva fretta di sgomberare e di rifar la stanza. O forse alla foto e alla sua cornice era capitato qualcos’altro. Non lo saprò mai. Fatto sta che quella perdita mi contrariò molto; per l’oggetto in sé, certo, ma anche e soprattutto perché quel fatto l’avevo sentito oscuramente come di cattivo auspicio. 

Le cose non capitano per caso, da molto tempo ho smesso di pensare che quello che ci accade capiti per caso. Ogni avvenimento, ogni fatto anche piccolo e in apparenza insignificante è segno di qualcosa; a volte anche di qualcosa di grande e di terribile, siamo noi che difficilmente sappiamo leggere i segni che si celano nell’ordito degli avvenimenti. 

Quando il 12 giugno di sette anni fa, mi fu comunicata la notizia della morte di Giuliano, un suo compagno mi disse: “Tuo figlio, prima di andare ad affrontare il nemico, mi ha chiesto di dirti che se entrerai nell’Islam, sarete sempre insieme.”

lā ilāha illā Allāh, non c’è dio se non Iddio, questa è la prima parte della Shahadah che poi prununciai, la seconda parte proclama la missione profetica di Muhammad. La shahadh è la formula che ho recitato quando ho deciso di accettare l’invito di mio figlio e farmi musulmano e che ogni musulmano recita almeno cinque volte al giorno ogniqualvolta si rivolge in direzione della Mecca recitandola insieme alla Fatiha, cioè la prima sura (brano) del Corano, e altri versetti del libro sacro e poi si prostra nella posizione detta del Sujud (la prosternazione). 

Divenire musulmano per chi è nato e vissuto nel mondo occidentale è cosa tutt’altro che facile, anche per questo sono propenso a credere che se succede, è perché era scritto e non è in nostro potere evitarlo. 

Il nostro mondo, il suo perenne disincanto, il suo scetticismo, i suoi stanchi riti, la sua mentalità che tutto pervade, il correre delle cose, dei rapporti umani e sociali, come si dice adesso, sempre più liquidi, dove tutto sembra fatto perché nulla di trascendente possa anche solo sfiorare le persone, sono un ostacolo spesso insormontabile per pensare a qualcosa che travalichi la realtà materiale nella quale ci troviamo; quella realtà che l’Islam chiama Dunya. 

Per tanti aspetti, le giornate di un musulmano sono giornate molto simili, almeno esteriormente, a quelle di tutti gli altri. Simili a quelle di chi non crede perché ha deciso che esiste solo quello che si manifesta attraverso i cinque sensi; simili a quelle di coloro che hanno letto qualche libro di propaganda atea: Dawkins, Hitchens o magari i nostri Oddifreddi e Flores d’Arcais, e si sono fatti convincere.

Simili anche a quelle della maggior parte delle persone che abitano il nostro mondo e il nostro tempo, dove non ci si pone il problema della fede, dove si vive come si dice, con l’eleganza e la sinteticità del latino, etsi Deus non daretur, cioè, anche se Dio non fosse dato, o come lo si traduce più comunemente, e tutto sommato meglio, come se Dio non ci fosse. 

Le giornate di un musulmano non differiscono molto da quelle di chi non crede. Eppure chi abbraccia l’Islam sa che la Salat, – la Salat, perché penso che tradurre questa parola araba con preghiera non dia l’esatto significato- fa la differenza fra una vita qualsiasi, – more ferarum, direbbe Julius Evola- e una vita di fede

Andrò alla Mecca un giorno, in shâ Allah (Se Dio vorrà). Starò là, sotto il sole dei tropici, avvolto nel Irhaam, i due drappi bianchi privi di cuciture con cui ogni pellegrino si avvolge, povero in mezzo ad una moltitudine turbinosa di persone come me. Sarò affamato, assetato e stanco e magari anche un po’ timoroso di quella folla di gente proveniente da ogni dove, perché la folla mi ha sempre fatto un po’ paura, e non vorrò pensare a nulla se non al mondo che invisibile ci sovrasta e di cui così spesso i segni ci sfuggono e in quella folla credo che lo rivedrò; sarà forse solo per un attimo, ma credo che riuscirò a rivederlo, quel mio bambino dal sorriso facile.