Mi chiamo Esma e ho fatto i conti con l’islamofobia in Germania

Mi chiamo Esma e ho 24 anni. Sono nata e abito in Germania, mio nonno arrivò qui nel 1972 e la famiglia lo raggiunse nel 1979. Mio padre, il terzo figlio, era uno studente di successo ma i soldi non erano abbastanza e non poté completare gli studi. Si sposò e mia madre diede alla luce me e i miei tre fratelli. Oltre a studiare Legge, faccio volontariato presso FEMYSO (Forum della gioventù musulmana europea e delle organizzazioni studentesche di musulmani). Sono musulmana e ho iniziato ad indossare il hijab all’età di 10 anni. Da allora ho dovuto affrontare molte difficoltà. Ecco dunque la mia storia.

Voglio raccontarvi di come ho vissuto la mia fede in Germania e sfruttare questa opportunità per trattare di temi importanti sui quali i governi dovrebbero lavorare. Vi parlerò anche del sostegno che ho ricevuto e dell’importanza di trovare soluzioni a lungo termine per le generazioni future.

Quando le persone mi chiedono se riesco a vivere la mia fede in Germania rispondo che questa “è la domanda sbagliata!” Il mio hijab mostra chi sono: una giovane ragazza musulmana che può indossare il velo senza temere sanzioni governative. Non sarebbe dunque un problema rispondere di sì, posso vivere la mia religione. I diritti costituzionali mi danno la “libertà” e la “sicurezza” di farlo. Ma questo è solo un lato della medaglia.

Per comprendere l’altro lato della medaglia dobbiamo porci la domanda giusta: quando e come iniziano i limiti della nostra libertà di culto?

La libertà dell’individuo si ferma dove inizia la libertà degli altridisse Immanuel Kant. Questa frase ha due punti chiave:

  1. Le tue capacità e opportunità
  2. La tua debolezza e i limiti che non puoi oltrepassare

Il primo punto riguarda la capacità di fare ciò che desideri purché non violi la privacy di qualcun altro. Non puoi entrare nella casa dei vicini semplicemente perché vuoi farlo. La tua libertà si ferma qui.

Il secondo riguarda il potere che gli altri possono usare contro di te, per via dello status sociale, della condizione economica, della legge e così via. La tua libertà è limitata dalle possibilità che ti offrono i potenti. Ed è tutto qui il nocciolo della mia esperienza.

La prima volta che dovetti affrontare questa realtà avevo solo sei anni. Allora mia madre era incinta e dovevamo trasferirci dal piccolo appartamento in cui in quattro a malapena entravamo. I miei genitori iniziarono dunque a cercare case in affitto, prendendo appuntamento con i rispettivi proprietari.

Mio padre è andato a scuola in Germania e parla tedesco senza alcun accento straniero. Questo fu solo un piccolissimo vantaggio perché, non appena raggiunto il luogo dell’appuntamento, i proprietari insultarono mio padre dicendo non vogliamo teste nere nel nostro quartiere (Schwarzköpfe è un’espressione offensiva usata per descrivere i turchi per via del colore dei loro capelli). Gli dissero: “Non è possibile che tu sia quello con cui stavo parlando al telefono. I turchi non parlano tedesco così bene. Se l’avessi saputo prima, ti avrei detto che non desideriamo te e la tua macchina sforna-bambini nel nostro appartamento.” Si riferiva a mia madre.

Di quei giorni ricordo le lacrime incessanti di mia madre. Una madre che voleva solo crescere i suoi figli in condizioni migliori lasciando un minuscolo appartamento pieno di muffa. Fu un periodo difficile.

Dopo mesi di ricerche e rifiuti, mio ​​padre raggiunse il limite e decise di comprare una casa. Una casa di cui essere il proprietario e che avrebbe usato per aiutare coloro che soffrivano della stessa ingiustizia. Con l’aiuto di Dio, molte preghiere e duro lavoro, riuscimmo a comprarla. Da allora viviamo in un condominio con cinque appartamenti, tre di questi affittati a musulmani.

La paura esistenziale è un problema serio. Una paura che si insinua nella mente e dice: non sei biondo, non sei tedesco. Sei diverso e diverso è cattivo.

Penso che non occorra spiegare l’impatto psicologico che la discriminazione ha sui bambini. In quel periodo la mia insegnante continuava a ripetermi che ero e sarei rimasta sciocca e stupida. Scrisse una lettera in cui spiegava che avrei dovuto cambiare scuola urgentemente perché “sottosviluppata“, termine che usava per dire che avevo un basso QI. Subito i miei genitori mi fecero fare un test del QI. Il risultato: 126. Orgogliosamente mio padre lo mostrò alla maestra e disse che “forse qualcun altro doveva essere mandato via per essere sottosviluppata“.

La scuola: il luogo in cui la discriminazione si nasconde meglio

Nella nuova scuola elementare andò molto meglio. La mia maestra mi aiutò a gestire la paura di fallire, a crescere, ad avere di nuovo fiducia nelle persone e soprattutto in me stessa.

Mio fratello non ebbe la mia stessa fortuna. L’insegnante schiaffeggiava gli studenti di nascosto, bambini tra i 6 e i 10 anni. Le sue vittime erano i bambini stranieri la cui unica “colpa” era di essere immigrati. Quando mio fratello lo raccontò, mio padre chiese immediatamente di parlare con l’insegnante e il preside. La risposta fu cambia scuola se non ti piace qui!

Venne il momento della scuola media. Sembrava tutto a posto. Fui anche eletta rappresentante di classe. Ero una ragazza indipendente e sicura di sé. Ma presto avrei imparato nuovamente che la discriminazione è ovunque, basta solo accorgersene.

Le cose iniziarono a cambiare quando decisi di indossare il hijab. La sera prima vidi un programma in cui un imam parlava della bellezza che l’Islam dona alla donna e del perché il hijab è una parte essenziale della nostra religione. Mi toccò così tanto che decisi di indossarlo da quel giorno in poi. Avevo 10 anni. La mattina dopo presi uno dei foulard di mia madre e le chiesi di aiutarmi ad indossarlo. Lei cercò di prepararmi alle possibili reazioni dei miei compagni di classe, dicendomi che ero bella e che Dio mi amava così tanto da onorarmi con la bellezza del hijab a quell’età.

Quel giorno avremmo avuto ginnastica. L’insegnante come prima cosa mi chiese se fossi stata costretta dai miei genitori. Non sembrava soddisfatto né convinto della mia risposta. Mi chiese di toglierlo e rifiutai. Gli spiegai che non avrei saputo rimetterlo e che, comunque, non lo avrei tolto solo perché lo voleva il mio insegnante. Ricordo che gli dissi che era una persona cattiva a causa del suo comportamento. Lui mi disse che mi avrebbe fatto fallire a scuola. Dopo una lunga discussione mi fece rimanere a guardare gli altri fare sport per due ore.

Cercai di sembrare forte e di rispondere con intelligenza e fiducia ma arrivata a casa non riuscii a fermare le lacrime. Allora ero arrabbiata con me stessa per sentirmi debole. Ora capisco che stavo cercando di portare addosso dei pesi che una ragazza di 10 anni non poteva portare da sola.

Sono davvero grata per il sostegno e l’amore dei miei genitori. L’insegnante chiamò mio padre a lavoro incolpandolo di essere un padre cattivo e coercitivo. Lui rispose che si fidava di me, che le mie scelte erano la mia prerogativa e che se avevo fatto una decisione era solo perché dietro c’era il mio cuore al 100%. Gli disse poi che avrebbe fatto di tutto per supportarmi e riattaccò.

Penso che sia stato uno dei momenti più preziosi della mia vita. Sentire il sostegno e l’amore dei miei genitori mi ha aiutato a diventare la donna sicura e indipendente che sono oggi. Una giovane donna che ama lottare per i deboli e per la giustizia.

Una volta condivisi la mia storia su una piattaforma online. Era una pagina nuova, nemmeno popolare, per musulmani vittime di ingiustizie che volevano supportarsi a vicenda. Non condivisi però la mia storia in maniera anonima. Questo bastò al servizio di intelligence per informare la scuola. Dodici ore dopo, i miei genitori ricevettero una telefonata per convocarci.

Esma, nel frattempo dodicenne, era rappresentante di classe e aveva buoni voti. Che problema avrebbe mai causato? Per proteggermi mio ​​padre disse che non ero obbligata ad andare con loro ma alla fine andammo alla riunione tutti insieme. Un intero comitato ci stava aspettando per dirci che mi avrebbero cacciato dalla scuola. E perché? Per aver mostrato la discriminazione che volevano nascondere?

La spiegazione ufficiale fu: Per aver diffamato la nostra reputazione condividendo storie inventate, la studentessa Esma verrà espulsa dalla scuola.

E mio padre disse “Questo è tutto ciò che conta per voi? Una ragazza è vittima di bullismo, razzismo e violenza psicologica da parte degli insegnanti e tutto ciò di cui state parlando è la vostra reputazione? Cosa pensate che succederà quando racconteremo queste storie che NON sono inventate alla TV e sui giornali?

Non potete opprimere la dignità di mia figlia con un comitato che non ha la minima idea di cosa si provi ad essere vittima di razzismo e a dover subire quello che lei ha subìto.

Quando chiese al preside come erano venuti a sapere della condivisione, questi gli rispose che la madre di un altro studente li aveva chiamati dopo una ricerca su Google. Mio padre cercò il nome della scuola ma la storia non apparve. Quindi il preside si corresse dicendo “no no, intendevo il nome della scuola e la parola velo”, ma ancora niente. Così si corresse una terza volta: “il nome della scuola + la parola velo + il mio nome.” Allora eccola, alla decima pagina delle ricerche.

Dopo che mio padre dovette sfogliare tutti i risultati da pagina 1 a pagina 10, fece un cenno verso la foto della scuola che era appesa alla parete e disse che erano patetici per aver messo su quel teatrino.

Il giorno dopo l’insegnante venne con un foglio che voleva che firmassi. Non capii bene cosa ci fosse scritto perché aveva uno stile accademico. Quindi risposi che l’avrei riportato il giorno dopo. A casa lo mostrai ai miei genitori che lo mostrarono ad un amico di famiglia, il quale ci spiegò che si trattava di una confessione di colpevolezza in cui promettevo firmando di lasciare la scuola.

Iniziarono le lezioni di nuoto ed era ovvio che non avrei partecipato. Ecco che la scuola aveva un motivo in più per farmi sembrare una cattiva studentessa mentre io volevo semplicemente difendere i miei diritti. Contattammo un avvocato musulmano che ci aiutò gratuitamente. La scuola fece un passo indietro riguardo alla condivisione online e alle lezioni di nuoto. Quello che adesso racconto in modo apparentemente facile è stato per me il momento più difficile di sempre. Soffrivo di problemi di salute. Fu una continua guerra psicologica.

Le lezioni di scrittura creativa, il cui voto dipendeva totalmente dal giudizio soggettivo degli insegnanti, distrussero la mia media. Avevo A e B in tutte le materie ma continuavo a prendere D in tedesco e inglese nonostante mi impegnassi duramente.

Quando andai alla superiori, capii che i miei vecchi insegnanti volevano limitare il mio successo con il loro potere. Nella nuova scuola gli esami erano difficili da superare. Una volta dovemmo analizzare delle poesie in tedesco, un esame temuto dagli studenti. Non volevo arrendermi e cercai di dare il massimo.

Quando la professoressa mi mostrò il voto rimasi scioccata. Avevo ottenuto una A- in tedesco per la prima volta nella mia vita. Ero così confusa che chiesi di ricontrollare perché non poteva essere il mio esame. Scoppiai a piangere. La professoressa mi abbracciò e mi chiese cosa fosse successo. Le raccontai delle mie esperienze passate e anche lei si mise a piangere. Mi disse una cosa che non dimenticherò mai: “Esma, NON PUOI farli vincere pensando di non poter avere successo. Le tue capacità di scrittura sono fantastiche e sono davvero orgogliosa di te. Puoi farcela!

Perché racconto tutto questo? Perché i danni emotivi te li porti dietro e quegli insegnanti ingiusti sono rimasti impuniti! Dopo anni ho ancora l’ansia da esame e la paura di fallire, non per mancanza di competenze ma per il mio nome e il mio hijab. Tante ragazze soffrono per gli stessi motivi.

Un giorno rincontrai il mio insegnante di ginnastica. Mi chiese arrabbiato se avessi spinto altre ragazze a parlare con gli avvocati. Era stato portato a processo una seconda volta, ma lui voleva incolpare me di aver manipolato altre ragazze.  

Tutto ciò dimostra quanto siano negligenti le istituzioni. Discriminazioni e razzismo spesso non vengono segnalati. I casi segnalati non sono seguiti o non vengono presi sul serio. Gli studi PISA hanno provato che molti insegnanti valutano negativamente gli esami degli immigrati ma nessun passo importante è stato fatto per migliorare la situazione.

Alcuni passi istituzionali

Nel 2006 è stata introdotta in Germania la Legge generale per la parità di trattamento. La gente spesso non ne è a conoscenza o non riesce a far valere i suoi diritti per mancanza di prove.

La discriminazione accade di solito verbalmente o indirettamente e le vittime sono troppo scioccate per affrontarla e capire a pieno cosa sia successo, metabolizzando dopo diverse ore e sentendosi impotenti e sole.

Se, ad esempio, un datore di lavoro non ti vuole come dipendente per via del hijab, anche quando riuscissi a portare delle prove davanti ad un tribunale, potresti ottenere il lavoro o un risarcimento in denaro ma, nel primo caso, non potresti comunque lavorare in tranquillità.

Tutto ciò solleva dubbi in termini di protezione delle minoranze. Le leggi ci sono, sì. Ma ci proteggono davvero? Prendono davvero in considerazione le conseguenze dei danni psicologici ed emotivi?

La stessa cosa accade con il velo nelle scuole. Avvalendosi della parità di trattamento, molte musulmane hanno iniziato ad alzare la voce per i loro diritti. In un paese in cui la diversità è apprezzata, perché alle donne musulmane con il hijab non dovrebbe essere permesso di insegnare, ad esempio? Invece di revocare il divieto, la Repubblica federale tedesca ha spostato il problema a livello dei singoli Stati dando loro competenza in materia di istruzione.

Vediamo dunque che i problemi non sono stati veramente risolti. Dobbiamo uscire dal ruolo della vittima e diventare cittadini attivi, soprattutto in politica, per cambiare la nostra situazione anche attraverso le elezioni. Dobbiamo apprezzare la nostra intelligenza, capire di avere potenziale, acquisire consapevolezza.

In conclusione

Ho parlato più delle brutte esperienze che di quelle belle non perché non ne abbia avute. Ho trovato datori di lavoro aperti e disponibili. Ci sono state persone gentili con la mia famiglia, che ancora mi invitano e mi chiamano per sapere come va. Ma questi bei ricordi non hanno fatto sparire i momenti infelici.

Condivido la mia storia per rendere i giovani musulmani consapevoli, non per spaventarli ma per insegnargli a gestire situazioni come quelle che ho vissuto io con un atteggiamento forte.

Desidero per le future generazione una gioventù indipendente, sicura ed attiva, consapevole dei propri diritti ed in grado di usare il proprio intelletto. Desidero anche che i nostri giovani vengano educati su ogni argomento possibile affinché ci siano professionisti in ogni settore.