Palestinese resiste alla demolizione della casa, la polizia israeliana si vendica pestandolo

Jaber Dababsi si è opposto alle forze israeliane quando per la terza volta hanno demolito la sua casa sulle colline a sud di Hebron. Due settimane dopo, agenti della polizia di frontiera lo hanno preso e lo hnno pestato. 

“Hai fatto l’uomo allora, vediamo se lo fai anche adesso,” così gli hanno detto gli agenti, prima di bloccargli le braccia e prenderlo a pugni. 

La sua casa è stata demolita per tre volte. L’ultima volta, qualche settimana fa, ha cercato di opporsi. Meno di due settimane dopo, elementi della polizia di frontiera che lo hanno riconosciuto mentre si trovava su un taxi, lo hanno fatto scendere dal veicolo, ve lo hanno spinto contro, gli hanno bloccato le mani dietro alla schiena e hanno cominciato a picchiarlo.  

Ha detto che il pestaggio è continuato per un quarto d’ora; ha preso botte su tutto il corpo, ma botte che non lasciano il segno. Ogni tanto, quando transitava un’auto, gli agenti interrompevano, in modo che nessuno vedesse mentre lo lavoravano. Questa è stata la loro vendetta per aver spinto e urlato quando reparti dell’Amministrazione Civile, un braccio del governo militare israeliano nei territori occupati, sono andati una volta ancora a distruggergli la casa. Questa settimana lui e la sua famiglia hanno di nuovo lavorato duramente, per cercare di ricostruirla. 

Khallet al-Daba, o collina delle iene – chiamata così per le iene che ancora vagano da quelle parti- si trova al confine del deserto a sud delle colline di Hebron. Un piccolo, remoto villaggio, al quale si arriva solo tramite una tortuosa strada sterrata, è un insieme di case sparse sulle colline, in terra palestinese posta nell’area C (cioè sotto il controllo civile e militare israeliano) della Cisgiordania. Ma solo agli ebrei è permesso di costruire qui, su questo suolo palestinese. Non molto lontano, un insediamento chiamato Maon, e Havat Maon, un avanposto dei coloni, cresce e si espande a velocità spaventosa. Inoltre c’è anche un nuovo quartiere di grandi case a Carmel, un altro vicino insediamento.

Solo alla gente del posto, agli agricoltori che sono nati qui- loro e i loro antenati- è proibito vivere sulla loro terra. Le 75 strutture di Khallet al-Daba, che attualmente ospitano 15 gruppi famigliari con i loro figli e con le loro pecore, sono in attesa di demolizione. Le case di entrambi i fratelli Dababsi, Jaber e Aamar, sono già state abbattute tre volte, e per la quarta è solo questione di tempo. Il loro nonno era conosciuto come il “nonno delle iene,” quando molte più iene potevano essere viste qui, molto prima che arrivassero i coloni e Israele espellesse i nativi palestinesi. 

Aamar Dababsi questa settimana lavora tra le macerie di Khallet al-Daba. Credit: Alex Levac

Jaber, 34 anni, sposato con Asama, e padre di Quattro bambini, è un uomo muscoloso, costruito solidamente, il cui spirito non è stato spezzato dai colpi degli agenti della polizia di frontiera ricevuti per strada. Il suo villaggio è tenuto con cura, in modo quasi commovente, nonostante il terreno aspro, arido, disseminato di rocce su cui è arroccato. Gli abitanti hanno piantato alberi ornamentali e anche grano e uliveti. La casa di Jaber era sopra a una grotta, grotta nella quale si sono ora rifugiati sua moglie e i bambini, in attesa che la casa sia ricostruita. 

Siamo stati qui nel settembre del 2019, dopo l’ultima volta che casa sua era stata demolita. Quattordici mesi dopo, il 25 novembre, gli israeliani sono tornati. 

È stata una giornata particolarmente soddisfacente per la squadra addetta alla demolizione dell’Amministrazione Civile. La devastazione che hanno provocato è stata una devastazione di ampio respiro e ha lasciato 44 persone senza tetto nella valle del Giordano e sulle colline a sud di Hebron, i due obbiettivi principali per ripulire le terre palestinesi dai loro abitanti. 

Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, pubblicati alla fine dello scorso mese, il 2020 è stato un anno particolarmente nefasto: 919 palestinesi, fra di loro 400 bambini, hanno perso la loro casa in Cisgiordania- più del doppio rispetto al 2018. 

La ciliegina sulla torta è stata messa il 25 novembre: gli abbattimenti sono stati eseguiti sia nella valle che sulle colline, e la casa di Jaber Dababsi è stata fra quelle che le truppe hanno devastato. Quel giorno, 44 palestinesi, metà dei quali bambini, sono rimasti senza casa.

È successo circa alle 9 e 30 del mattino. Jaber ci racconta che stava aiutando Aamar a dare gli ultimi ritocchi all’interno della casa, che era stata demolita circa un anno prima. All’improvviso ha notato un convoglio di veicoli e di pesanti automezzi arrampicarsi sul pendio verso Khallet al-Daba. In precedenza quella mattina un messaggio era stato diffuso fra i membri del gruppo WhatsApp regionale, messaggio secondo il quale delle demolizioni erano in corso nella vicina comunità della grotta, Al Mufaqara. Ma i fratelli non immaginavano che i demolitori sarebbero spuntati quel giorno a casa loro, perché non avevano ricevuto alcun ordine di demolizione. 

Hanno poi scoperto che un singolo, iniziale ordine di demolizione è sufficiente alle forze di occupazione per distruggere casa tua una seconda, terza, quarta volta, o ancora in qualsiasi altro momento futuro. Quando il convoglio è entrato nel loro villaggio, Jaber era convinto che si sarebbe limitato ad attraversarlo, proseguendo verso un’altra destinazione. Invece i veicoli si sono fermati. 

Il personale dell’Amministrazione Civile ha ordinate alle famiglie di lasciare immediatamente le case. Dopo la seconda demolizione, Jaber aveva costruito un’abitazione di circa 90 metri quadrati sulle rovine della casa precedente, con l’assistenza e l’aiuto di un’agenzia umanitaria francese denominata Agency for Technical Cooperation and Development. I demolitori non hanno permesso loro di portar via nulla dalla casa; Jaber dice che comunque non avrebbe portato nulla fuori, perché farlo equivaleva a collaborare con i demolitori. Alla famiglia non è rimasto altro da fare se non andarsene. 

Aamar da parte sua stava in cima alla collina e cominciò a cantare canzoni patriotiche. Un agente della polizia di frontiera gli ha detto di smetterla e ne è seguito un confronto. Durante la demolizione precedente Aamar era stato ferito ed ospedalizzato. Ora era intervenuto anche suo fratello che ha cominciato a spingere gli agenti della polizia di frontiera, urlandogli contro e imprecando. Quando ha sentito il loro comandante ordinare il suo arresto, Jaber è fuggito verso la valle. 

La squadra dei demolitori aveva fretta. Avevano ancora un altro lavoro da fare- distruggere il sistema idrico della vicina Jimba- e il tempo era limitato. Hanno impiegato circa due ore per abbattere la casa di Jaber. L’hanno ridotta ad un ammasso di rovine, questa settimana era ancora lì, un muto monumento.

Nel frattempo, Nasser Nawaj’ah, un ricercatore regionale sul campo dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem, è giunto sulla scena provenendo dal villaggio vicino di A-Tuwani. Nella tenda bianca eretta vicino alle macerie, ci ha raccontato questa settimana nel suo speciale ebraico cosa aveva visto quel giorno.

“È stato triste,” ha detto. “Jaber semplicemente è sembrato scomparire. Non sapeva che fare. Era come qualcuno a cui fosse stato portato via il suo bimbo, o come una persona che avesse assistito alla morte di qualcuno a cui era particolarmente affezionato.

Non ci sono parole per descrivere queste cose. Jaber è stato in silenzio per qualche minuto e poi ha iniziato a urlare. All’improvviso è sembrato tornare alla vita e ha cominciato a urlare; erano le urla di una persona ferita, di una persona piena di dolore. Questa è casa sua. Lo ha detto molte volte. Perché state demolendo casa mia? E i poliziotti gli hanno risposto di star zitto e di uscire. Ha rifiutato. Ha detto loro: questa è casa mia. Forse ha spinto qualcuno per entrare dentro. Dopo di ciò la sua casa è stata ridotta a un cumulo di macerie.”

Quella notte, dopo essere ritornato, Jaber ha dormito sotto le stelle; la sua famiglia era nella grotta. Il giorno dopo ha cominciato a ricostruire casa sua. In quale altro posto avrebbe potuto andare?

Il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori questa settimana ha detto a Haaretz: “Il 25 novembre del 2020 l’ispezione dell’unità dell’Amministrazione Civile ha eseguito un’attività di contrasto contro una struttura che era stata costruita illegalmente, senza le autorizzazioni e senza i permessi necessari, in una zona di interesse militare sulle colline a sud di Hebron. Analogamente, il 6 novembre 2019, un’attività di contrasto è stata portata a termine nei confronti di una struttura che era stata costruita sullo stesso luogo, dallo stesso proprietario. Tale attività contro le restanti strutture illegali nell’area saranno eseguite secondo l’ordine di priorità e secondo le considerazioni operative, e saranno anche soggette alla conclusione del processo legale e amministrativo di questa vicenda.

Circa due settimane dopo, il 7 dicembre, Jaber è andato a far compere nel villaggio palestinese di Karmil, a circa sei chilometri da casa sua. Aveva avuto un passaggio da un amico e ha preso un taxi per tornare a casa. Verso le 3 e 30 del pomeriggio, un furgone Savana bianco improvvisamente ha bloccato la strada. Due poliziotti di frontiera armati ne sono usciti. Nawaj’ah, il ricercatore, aveva visto in precedenza il furgone pattugliare lungo l’autostrada 317, andava avanti e indietro e fermava le automobili palestinesi. In quel momento hanno fermato il taxi sulla strada in uscita da Karmil, che conduce all’autostrada 317.

Uno degli agenti ha chiesto i documenti dell’autista, e ha notato il passeggero che gli era seduto a fianco. Bingo. Era il tipo che si era opposto alla demolizione di casa sua due settimane prima. “È lui,” disse uno degli agenti. Jaber racconta che ebbero la conferma che fosse davvero lui controllando una foto sui loro telefoni, foto che era stata scattata quando loro demolivano la casa. Anche lui si ricordava di loro in quel giorno.

“Facevi l’uomo allora, vediamo adesso,” dissero, poi lo trascinarono fuori, e lo misero dietro al taxi. Uno degli agenti gli afferrò le braccia e gliele girò dietro alla schiena, e altri due cominciarono a picchiarlo, stando attenti a non colpirlo in faccia; interrompevano quando passava un’auto. Jaber ricorda che la polizia di frontiera filmava l’evento.

Dice di essere stato preso a pugni per circa un quarto d’ora. Quindi gli ordinarono di rientrare nel taxi e di andarsene immediatamente- o avrebbero distrutto il veicolo. Uno di loro lo spinse nell’auto con un calcio. Poteva appena star dritto mentre lo picchiavano e il giorno dopo quando cercava di stare in piedi i dolori peggioravano. Passarono dopo due giorni. Non è andato in una clinica o in un ospedale. È un uomo forte.

Improvvisamente la gente nella tenda dove stavamo parlando si è messa a ridere. Musa Abu Hashhash, un altro ricercatore sul campo di B’Tselem, dice che la situazione è così triste che tutto quello che possono fare è ridere.

La polizia israeliana ha fornito ad Haaretz la seguente dichiarazione: “Un primo esame mostra che non è stata esercitata alcuna violenza sul sospettato, e che i dettagli da voi forniti non sono veritieri. Nel corso di un’azione di sicurezza nell’area, i militari hanno fermato un’auto per ispezionarla vicino a Yata, entrambi i passeggeri dell’auto in questione sono stati controllati, e poco dopo sono stati rilasciati e mandati via. L’ispezione è stata eseguita senza connessioni con l’identità del sospettato o con i precedenti trascorsi, tuttavia qualsiasi rimostranza per il comportamento dei militari sarà, come si conviene, esaminata dalle autorità competenti.

Il suocero di Jaber, Abdullah Dababsi, 57 anni, sta stendendo il cemento del pavimento della nuova casa di sua figlia e della sua famiglia. I bambini di Jaber, Rithan che ha 6 anni, e Rishan che ne ha 4, sono la squadra di costruzione del nonno. Sono stati di aiuto anche nel settembre del 2019. Hanno visto distruggere casa loro diverse volte nel corso della loro breve vita. 

 

Articolo di Gideon Levy e immagini di Alex Levac pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz