L’intuizione di Semmelweis sull’igiene che salvò molte vite ma lo fece impazzire


Il medico Ferdinand Destouches, meglio noto come Céline, uno dei più grandi geni letterari del secolo scorso, ma un genio tuttora scomodo e controverso, circa un secolo dopo, raccontò la storia del dottor Semmelweis (1818-1865) nella sua tesi di laurea in medicina.

Lo fece scandagliandone la vicenda di uomo e di scienziato, e la raccontò con la sua inimitabile, a tratti sorprendente e magnifica prosa; la raccontò con una profondità di indagine, con una corrente di umana solidarietà che sgorga da un’evidente affinità di cuore e di ragione, capace di toccare profondamente il lettore.

La tesi del dottor Destouches, alias Céline, Adelphi l’ha pubblicata anni orsono nella sua pregevole Piccola Biblioteca, ed è un piccolo libro agile, completato da un degno saggio di Guido Ceronetti; un libro che forse passa quasi inosservato fra i numerosissimi titoli della collana, ma di gran valore.

La vicenda 

Nella Vienna della prima metà dell’ottocento, tutta un’umanità femminile povera, dolente e randagia, fatta di povere donne, di prostitute, di ragazze senza marito o malmaritate, di scappate di casa, che la società ottocentesca, quando la rivoluzione industriale era ancora agli inizi, produceva, spesso andava a ricoverarsi per partorire in tetri padiglioni ospedalieri. In quei luoghi molte di queste donne, dopo il parto, venivano colte da dolori lancinanti, da febbre altissima, e nel giro di qualche giorno, a volte di qualche ora, morivano. Morivano di un morbo di cui si ignoravano le cause, che andava sotto il nome di febbre puerperale.

La scienza medica riguardo a questi eventi si trovava allora nell’oscurità più completa e ricercava la causa del morbo che flagellava i reparti di maternità, come ancora usava ai tempi delle pesti manzoniane, in improbabili miasmi, in non meglio definiti flussi uterini che, partendo dall’utero, si supponeva bloccassero l’intestino.

Lo stesso Semmelweis ebbe per un po’ a sospettare che fosse la campanella, che suonava accompagnando il prete mentre impartiva l’estrema unzione, a esercitare un possibile influsso nefasto sulle puerpere. Insomma si era molto lontano da capire cosa provocasse le febbri puerperali.

Tuttavia, il dottor Semmelweis che prestava la sua opera nell’ospedale generale di Vienna, un complesso per l’epoca moderno e all’avanguardia, come assistente di un importante ostetrico, che all’epoca andava per la maggiore di nome Klein, aveva finalmente notato che la febbre puerperale imperversava soprattutto nei reparti ospedalieri dove gli studenti di medicina visitavano le puerpere subito dopo aver lasciato le sale autoptiche, dove vi avevano dissezionato cadaveri, mentre il morbo era molto meno frequente o era del tutto assente laddove a far pratica e a manipolare le donne che avevano appena partorito erano solo le ostetriche.

L’intuizione

Ebbe allora l’intuizione decisiva: gli studenti visitando le donne con mani che avevano appena manipolato cadaveri le infettavano e ne provocavano la malattia. Per questo, seguendo quel dato di fatto empiricamente constatato, cioè l’evidenza di un numero molto maggiore di vittime dove si praticavano le autopsie, pretese che gli studenti, e con loro i medici, prima di mettere le mani sulle donne, meglio sarebbe dire nelle donne, quelle loro mani semplicemente le lavassero e le purificassero in bacinelle contenenti soluzioni di cloruro di calce.

Sembrerebbe una soluzione semplice, economica e ragionevole in tempi ancora lontani da Pasteur e dalla sua scoperta del mondo dei batteri; una soluzione che per quanto potesse, almeno inizialmente, non avere una conferma inoppugnabile, non implicava nulla di dispendioso o di particolarmente complicato, e i risultati infatti non tardarono ad arrivare: sempre meno donne erano colte da quelle terribili febbri. La morte perdeva terreno.

Ma pare che nulla sia semplice nelle vicende umane, e quelle misure di igiene non tardarono a scatenare la reazione di studenti e di altri medici, che presto misero in discussione, se non addirittura irrisero quel dottore che parlava un tedesco mediocre, che lo parlava con uno spiccato accento ungherese, e quelle sue misure di semplice igiene le vivevano come un’imposizione, un’offesa quasi, una pretesa assurda e ridicola. E poi montarono gelosie e invidie, soprattutto da parte di quel Klein che era il diretto superiore di Semmelweis.

La storia del medico ungherese si conclude tragicamente. Semmelweis, ci racconta Céline, sempre più incupito e con la mente ormai abitata dai fantasmi del sospetto e della paranoia, e ormai incapace di affrontare la vita e la realtà con calma e coerenza, probabilmente per dimostrare a tutti nel modo più assurdo e crudele possibile che aveva ragione, si ferisce volontariamente e si infetta con le sostanze prodotte dalla putrefazione di un cadavere, contraendo così la terribile infezione che lo condurrà alla morte.

Ceronetti, nel breve saggio che segue il libro di Céline, scrive a ragione che quello che accadeva in quegli anni negli ospedali europei e americani non sarebbe potuto accadere in una società tradizionale, in un mondo dove ancora vi vigessero interdetti e tabù legati al concetto di puro e di impuro. La società occidentale, complice anche il cristianesimo che di fatto quei concetti abolisce, aveva semplicemente dimenticato che un cadavere è cosa impura, dal cui contatto occorre purificarsi.

Oggi al geniale dottor Semmelweis, a cui Céline rende omaggio come a un eroe, e le cui teorie sarebbero poi state inconfutabilmente corroborate dalle scoperte di Louis Pasteur e di Joseph Lister, sono stati intitolati in patria monumenti e reparti ospedalieri.