A difendere Erdogan da Biden sono gli ebrei turchi: riprovevole accusarlo di antisemitismo

I nuovi assalti di Israele contro Gaza, con l’immancabile scia di morti civili e distruzione diffusa, hanno innescato una polemica che ha coinvolto la Turchia e persino l’amministrazione Usa: una polemica sfociata in accuse – antipatiche e infamanti – di “antisemitismo”, immediatamente rigettate dagli ebrei di Turchia.

Erdoğan non ha misurato le parole: dopo le prime stragi indiscriminate compiute dalle forze armate israeliane ha gridato al “terrorismo” che è “nella loro natura”, li ha definiti “assassini” che “succhiano il sangue dei bambini”. Parole pesanti, offensive, oltraggiose: riferite però sempre ai militari e alle sfere politiche che hanno ordinato l’offensiva, mai agli israeliani – o addirittura agli ebrei – in senso generale.

Parole pronunciate a caldo, che riflettono l’indignazione planetaria per l’ennesima violazione su larga scala – senza batter ciglio – delle regole più elementari del diritto umanitario. Parole che hanno chiamato direttamene in causa anche Joe Biden: accusato nel suo caso di complicità, di avere “le mani sporche di sangue” (per il sostegno costante sfacciato a Israele, qualunque cosa Israele faccia).

La risposta è arrivata dal portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price: non una replica – anche piccata – per l’attacco a Biden, ma una condanna sdegnata delle parole di Erdoğan perché considerate “antisemite”. Parole, a detta di Price, “riprovevoli”.

A difendere il presidente turco sono stati per l’appunto gli ebrei di Turchia, direttamente dall’account Twitter della comunità e del rabbinato. Già la foto a corredo è eloquente: Erdoğan che incontra, com’è solito fare periodicamente, i rappresentanti delle comunità religiose non musulmane (ebrei, armeni, greco-ortodossi, siro-ortodossi, cattolici); le parole scelte sono invece piccate e definitive: “è scorretto e riprovevole implicare che il presidente Erdoğan sia antisemita; al contrario è sempre stato costruttivo, offrendoci sostegno e incoraggiamento”. Hanno usato esattamente la stessa parola, per rispedirla al mittente: “riprovevole”.

Sono forse parole di comodo? Sono gli ebrei di Turchia bersaglio di minacce politiche o di un sentimento diffuso di ostilità, quindi in un certo senso obbligati a proteggersi? Beh, no: la loro storia è fondata sulla convivenza armoniosa, al di là di qualche occasionale periodo di tensioni e anche discriminazioni. Gli ebrei sono arrivati in Anatolia già in epoca ellenistica, con alcune comunità sparse; i grandi numeri sono però quelli dei sefarditi: cacciati nel 1492 dalla Spagna ridiventata cattolica, accolti dall’Impero ottomano (la Salonicco ottomana, prima della conquista greca nel 1912, era la città con la più nutrita presenza ebraica al mondo); da ultimi sono arrivati gli ashkenaziti, gli ebrei dell’Europa orientale. Oggi sono circa 20.000. 

A Istanbul la comunità è molto attiva: alcune sinagoghe rimangono in funzione in varie zone della città, anche se il numero dei fedeli è diminuito drasticamente; in quella sefardita di Neve Shalom, proprio sotto la torre di Galata, viene annualmente celebrata la Giornata europea della cultura ebraica: con conferenze, concerti, presentazioni di libri, mostre, pranzo kosher. La partecipazione è ampia, musulmani compresi: sono curiosi, vogliono scoprire la storia, i rituali, le tradizioni degli ebrei loro concittadini.

Un’associazione, in questa e alte occasioni, organizza passeggiate alla scoperta dei monumenti storici della comunità ebraica: non solo sinagoghe, ma anche residenze private come quelle dei Camondo (i più grandi banchieri dell’Impero ottomano che si trasferirono a Parigi e diventarono collezionisti d’arte: i Rotschild d’Oriente). Il quartiere di Galata, costruito dai genovesi, proprio grazie ai banchieri ebrei divenne nel XIX secolo il centro finanziario dell’Impero: la Wall Street ottomana, ancora oggi chiamata “via delle banche”. 

Fusa in un solo centro culturale, una vecchia sinagoga non più in uso contigua a Neve Shalom è stata trasformata in museo: il museo del Cinquecentenario, istituito nel 500° anniversario dell’esodo del 1492 (aveva un’altra sede, ha aperto nel 2016 nella nuova). Un museo moderno, in spazi ristretti ma ben organizzati: ripercorre le tappe storiche senza tacere gli episodi controversi, espone documenti che testimoniano l’accoglienza dei Sultani e cimeli di rabbini, scrittori, musicisti, soldati, parlamentari – ebrei ottomani, ebrei turchi. Un’altra sezione mostra oggetti di culto come rotoli della torah; un’altra ancora, foto e oggetti usati nelle cerimonie: matrimoni, circoncisioni, funerali.

A poca distanza, un’altra sinagoga non più adibita al culto – la Schneidertempel, o sinagoga dei sarti (di inizio ‘900) – racconta invece le vicende turche del suo gruppo di riferimento, quello ashkenazita. Il progetto è in divenire, al momento prevede l’esposizione di foto e cimeli – contestualizzati da pannelli con informazioni storiche – sul ballatoio; la navata principale è utilizzata invece per mostre: come quella spettacolare di due anni fa, con ritratti fotografici vecchi di un secolo degli ebrei ashkenaziti di Istanbul. Volti felici, scene di vita agiata.

Storia e storie che proprio nella Turchia di Erdoğan hanno acquisito maggior visibilità e pari dignità. Accusare il presidente di antisemitismo significa ignorare due decenni in cui le comunità non musulmane hanno ritrovato luoghi di culto e recuperato proprietà in precedenza confiscate, in cui sono state trattate costantemente da Erdoğan come elemento costitutivo a pieno titolo della nuova Turchia come prima lo sono stati della Turchia ottomana. Le critiche a Israele, anche feroci, sono tutt’altra cosa.