Ofelia Omoyele Balogun e i Corpi Barricati a teatro

Ofelia volendo fare un tuffo nel passato, quali sono stati gli aspetti che hanno determinato la persona che, oggi, ho davanti?

Le persone vengono poste dinanzi a determinati ostacoli, in base alle nostre scelte si crea la traiettoria di vita di ciascuno di noi. Il più grande insegnamento rimane però, l’aver inteso che tra ciò che mi accadeva e me stessa vi era uno spazio nel quale avrei potuto decidere come reagire.

È stata questa realizzazione ad averti spinto a trasferirti in Inghilterra all’età di 16 anni?

Mi sono trasferita molto piu’ tardi . Nonostante all’epoca sia stata per me sicuramente una decisione spaventosa, la considero il mio primo passo nel prendere effettivamente le redini della mia vita, nel prospetto che io sono un essere pensante in grado di navigare la propria vita e non un oggetto, manichino prodotto della società.

Avendo vissuto sia in Italia che in Inghilterra, quale è stata la tua percezione sull’approccio dei due Paesi verso il tema della diversità?

Per quanto riguarda la Gran Bretagna, storicamente parlando, è stato uno dei primi paesi ad aver avviato il processo di colonizzazione moderno da cui ne conseguì, tra le tante cose, una inevitabile società multiculturale. Ciò però non deve indurre nell’errore di pensare che data una apparante società multiculturale, i corpi differenti vengano accettati di più.

Io ho vissuto principalmente a Londra, sicuramente una realtà molto diversa dal restante dell’Inghilterra. In apparenza sembra che non vi siano discriminazioni e che tutti noi veniamo considerati con il nostro talento e potenziale. Tuttavia a livello sistemico le differenze ci sono e si notano, nel caso ad esempio, quando le organizzazioni afrodiscendenti fanno fatica a percepire dallo Stato dei finanziamenti regolari, a causa del tipo di messaggio che portano avanti.

In Italia, probabilmente, il processo intento a scoperchiare la discriminazione strutturale, nei confronti particolarmente del concetto di “corpo altro” è cominciato da poco.

Trasferirmi, dunque, mi ha permesso di osservare me stessa e gli altri riflettendo su quelle che sono le dinamiche del razzismo interiorizzato.

L’Inghilterra, con tutti i suoi pregi e difetti, mi ha inoltre dimostrato da dove deriva l’idea che noi abbiamo del mondo occidentale contemporaneo, rendendomi conscia su quanto io avessi interiorizzato ideologie sbagliate che nutrivo su me stessa e di conseguenza anche sugli altri.

Calco questo punto non perché io mi senta speciale, ma in quanto io creda che il processo di consapevolezza sia l’elemento principale per fare un attivismo di tipo costruttivo. Il colonialismo non è stato solo un processo di occupazione di territori ma anche di trasformazione della psicologia delle popolazioni, perciò ritengo sia importante fare un’analisi su sé stessi distinguendo ciò che ci appartiene e ciò che è frutto di una programmazione dovuta a un determinato contesto e momento storico.

Quali possono essere i primi steps da intraprendere per sradicare questa narrativa interiore?

Tramite la pratica della danza ho riscoperto il corpo come uno strumento di intuizione che non si limita solo alle funzionalità di mangiare, bere, dormire, riprodursi ma dimostra una capacita’ al reagire davanti ad  una possibile decisione che potrebbe essere sbagliata per il corso di vita di una persona.

Quindi si impara ad ascoltare il proprio corpo, rianalizzando la propria narrativa interiore e stabilendo quanto sia funzionale nella vita di ciascuno di noi, un approccio applicato attraverso la pratica “DYR”( Dance Your Roots Somatica) che permette un avviamento verso lo sradicamento di una probabile programmazione malsana.

Come reagisci a situazioni di discriminazione?

Innanzitutto bisogna distinguere se in relazione  ad un altro individuo o ad un’istituzione. Nel momento in cui si tratta di un’istituzione la questione smette di riguardarmi a livello personale, in quanto insieme a me, milioni di altre persone condividono la mia stessa storia e anche loro cercano di rovesciare un paradigma.

Per quanto riguarda la mia reazione spero che con la pratica diventi di livello intuitivo, ciò significa ascoltare come si sente il mio corpo in quel dato momento nel fine di rispondere in maniera costruttiva.

Cosa ti ha condotto ad intraprendere il percorso della danza?

Il mio non è stato un percorso lineare, per forza di cose mi ci sono ritrovata dentro. Amavo la danza, tuttavia non immaginavo potesse diventare la mia professione.

Cosa, invece, ti porta ad accompagnare l’attivismo alla tua professione?

Ognuno di noi, principalmente, quando sceglie di fare una professione rappresenta inconsciamente un determinato gruppo di persone a cui terzi lo associano ad una categoria specifica. Io sono cresciuta in una casa dove bisognava farsi continue  domande in relazione al mondo e se stessi, ciò mi ha spinto a pormi dei quesiti come: perché la danza Afrocentrica non è allo stesso livello di qualsiasi altra danza? Chi è che decide che questa danza è di serie B rispetto alla danza di matrice Eurocentrica? Perché  in qualità di danzatrici o danzatori non si viene considerati tecnicamente allo stesso livello degli altri? Nonostante siamo consapevoli che vi sia una tecnica complessa anche se “diversa” da quella condivisa dalla maggioranza.

Attivismo lo intendo, quindi, come un attivatore di consapevolezza. Nel mio lavoro cerco di porre domande che possano indurre a una piccola crisi di coscienza, lo faccio attraverso l’arte e ritengo che ognuno di noi possa svolgere la sua parte facendo esattamente ciò che ama.

Sta di fatto  che se si nasce in un determinato corpo si hanno specifiche esperienze,  non si ha scelta al giorno d’oggi.  Diventa, quindi, un dovere trasmettere  il proprio messaggio che da individuale diventa universale, esso però deve essere spogliato dalle convinzioni limitanti su sé stessi perché altrimenti si  rischia di sfociare nel vittimismo.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Nel futuro prossimo, il 21 di febbraio ci sarà uno spettacolo teatrale sul monologo scritto da Emmanuel Edson. Si intitola “I Corpi Barricati” e tratta di una donna che in un limbo riflette su come le etichette sociali abbiano influenzato lo scorrere della sua vita. Il musicista, educatore, mediatore museale e polistrumentista Dudù Kouate mi accompagnerà sul palco come co-protagonista con  circa una sessantina di  strumenti, augurandoci che il pubblico riesca a percepire le sfumature di questo personaggio lasciandosi trasportare in un viaggio.

Inoltre a breve verra’ lanciato un percorso, attraverso la piattaforma MoremiPath in collaborazione con NebuaWorld e Metissage, che permettera’ di approfondire i concetti della metodologia DYR Somatica dove Arte del Movimento e consapevolezza sono al centro della dinamica di decostruzione e di riconoscimento di narrazione interiore.