Perchè l’Occidente si sbaglia sull’Islam, Oborne spiega la costruzione USA del nemico islamico 

Ci sono voluti circa vent’anni per scrivere questo libro: la guerra in Iraq e le sue terribili conseguenze sono state l’innesco. Fino ad allora guardavo alla Gran Bretagna come a uno stato virtuoso”.

Inizia così il libro, freschissimo di pubblicazione (maggio 2022), di Peter Oborneun importante giornalista inglese; ha lavorato per diverse testate, dal Daily Telegraph al Guardian ed oggi collabora regolarmente con Middle East EyeThe Fate of Abraham; Why the West is Wrong about Islam.

È un libro piuttosto corposo in cui Oborne considera i principali elementi di quella che vuole essere l’attuale narrazione ufficiale (del cosiddetto “mondo libero”) in merito all’Islam. Questa poggerebbe, in buona parte, su una “storia di comodo”, scritta e ribadita giorno dopo giorno da quello che vuole essere un pensiero unico islamofobo. Peter Oborne, in The Fate of Abraham, critica in maniera circostanziata questa narrazione, coinvolgendo il lettore in un interessante viaggio nello spazio e nel tempo.

Vediamo di sintetizzarne presto alcune tappe.

Il leitmotiv del testo può essere presentato in questo modo: in onore a un pensiero squisitamente binario, in Occidente ci percepiamo (o, volendo, siamo etero-diretti a percepirci) come figli della tradizione giudaico–cristiana. Questo anche a partire — nel corso di buona parte del Novecento — dalla consapevolezza di quanto minacciasse frontalmente la nostra “identità di blocco”: il comunismo sovietico con le conseguenti implicazioni di materialismo culturale e ateismo di stato.

La caduta del muro di Berlino ha portato, necessariamente, con sé un vuoto narrativo. Il nemico, dopo indicibili tensioni e sofferenze, era battuto. In onore ad un pensiero squisitamente binario era necessario aggiornare la narrazione e, a questo scopo, si sono prestate grandemente le tesi dello storico e orientalista anglo-americano Bernard Lewis e dello scienziato politico Samuel P. Huntington. Siate dunque i benvenuti nell’era dello scontro di civiltà! La civiltà rivale non poteva che essere quella islamica anche se questa prospettiva, oggi,  sembrerebbe già avviata a diventare anacronistica, stando almeno a quanto scrive Michele Brignone sulla rivista Oasis (dell’omonima fondazione che promuove la conoscenza del mondo islamico e l’incontro tra cristiani e musulmani) nel suo recentissimo articolo: La morte di Zawahiri, uomo simbolo della parabola jihadista.

Merita citarne la conclusione:

A un anno di distanza dal ritiro americano dall’Afghanistan, la morte del leader jihadista egiziano è un altro sigillo posto sulla fine dell’era della guerra al terrore. Tuttavia, la sua concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina e con l’innalzamento della tensione tra Stati Uniti e Cina suggerisce anche un’altra considerazione. Per due decenni l’islamismo radicale è stato elevato a nemico ontologico del “mondo libero”. Questo fenomeno sopravvive ai suoi grandi protagonisti come forza insurrezionale locale, soprattutto nei contesti già segnati da crisi e conflitti, ma è dallo scontro di potenza tra attori statuali che viene la minaccia più grave alla pace mondiale”

Naturalmente l’islamismo radicale di cui parla Brignone non può essere identificato, sic et simpliciter, con l’Islam, la sua ricchezza e multiformità ma quanti, a diversi livelli della gerarchia sociale, si sono sbizzarriti con l’elaborazione di assiomi facili e mendaci, facendo soprattutto leva su di una programmata ignoranza generalizzata dei figli della tradizione giudaico-cristiana? 

Seconda domanda, tornando alla conclusione dell’articolo di Brignone su Oasis: possiamo già parlare di un cambio di guardia del nemico ontologico? Non ci sarebbe nulla di cui meravigliarsi; del resto il fondamentalismo islamico è una categoria che non rientrava nel vocabolario della CIA fino alle Rivoluzione Khomeinista e alla Guerra in Afghanistan e, a volte, la storia si supera nel suo stesso dipanarsi ma non traiamo conclusioni affrettate! Veniamo piuttosto alle promesse tappe del nostro viaggio che inizia negli Stati Uniti d’America e si svilupperà, a Dio piacendo, in questo e in due articoli successivi.

Gli Stati Uniti e l’Islam

La relazione americana con l’Islam è sempre stata determinata dall’immaginazione piuttosto che dalla realtà” (The Fate of Abraham, p. 27, trad. mia).

L’Islam arriva negli Stati Uniti con la vergogna di quella che in lingua swahili viene definita maafa (la grande tragedia): la tratta atlantica degli schiavi; la più grande deportazione della storia (ha coinvolto direttamente circa 12 milioni di africani nell’arco di circa 400 anni). Di conseguenza, non poteva non mantenere, a lungo, un profilo bassissimo, dando la possibilità agli americani di farselo soprattutto raccontare — da viaggiatori generalmente “di tradizione giudaico-cristiana” —  l’Islam e, appunto, di lavorare di immaginazione.

Diversamente dalle potenze coloniali europee (in particolare Francia e Gran Bretagna su cui si soffermerà a lungo Oborne nel suo testo) che incontrarono l’Islam faccia a faccia nel corso delle loro imprese di conquista e di amministrazione dei territori conquistati, gli Stati Uniti, sino ad un periodo relativamente recente, hanno avuto una minore opportunità di approfondire alternative religiose ai contenuti del testo maggiormente letto dagli americani fino al ventesimo secolo (parola di Oborne): La Sacra Bibbia! Il proliferare di sette protestanti, sul suolo americano avrebbe poi affermato — trasversalmente — alcuni princìpi, il primo dei quali era che gli americani, al pari degli ebrei, fossero il popolo prescelto da Dio (i Mormoni affermerebbero che gli americani sarebbero i discendenti delle disperse tribù d’Israele). 

Il secondo principio comunemente condiviso, negli Stati Uniti, riguarderebbe il ruolo biblicamente rilevante rivestito da americani ed ebrei all’avvicinarsi dei giorni ultimi ed alla seconda venuta del Cristo.

Questa credenza”, scrive Oborne, “è ancora sostenuta da milioni di votanti americani, fomentati da popolari media evangelici in alleanza con il governo israeliano ed ha rappresentato il più importante fattore di influenza sulla politica estera dell’amministrazione Trump” (The Fate of Abraham, p. 29, trad. mia). La bestia nera della visione apocalittica che ossessiona molti americani può essere facilmente identificata con l’Islam.

Nella seconda metà dell’Ottocento gli Stati Uniti iniziano ad essere meta di immigrazione anche da parte di musulmani che, generalmente, non si distinguevano per esibire la propria fede. Nel 1921, nello stato del Michigan, apre la prima moschea. Tanto per dare un termine di riferimento, in Inghilterra le prime due moschee sono attive già nel 1890. Nel frattempo si svolgeva la grande migrazione interna che coinvolgeva molte persone di colore che muovevano dal sud agricolo, avviluppato in un periodo di grave depressione. Iniziata intorno al 1910, la grande migrazione ha conosciuto un rallentamento negli anni ’30 dovuto al periodo di pesante recessione economica, fino a quando, nel 1970, “oltre sei milioni di afro-americani si erano trasferiti nelle città del nord, del Midwest e del West”.

Il razzismo dei bianchi nei confronti dei nuovi arrivati era feroce, in particolare negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale e diverse figure carismatiche identificarono nell’Islam (o, meglio, in sue versioni piuttosto eterodosse) uno strumento di liberazione per gli oppressi afro-americani; da Timothy Drew, meglio conosciuto come il Nobile Drew Ali, fondatore del Moorish Science Temple of America nel 1913 a Marcus Garvey, fondatore dell’Universal Negro Improvement Association.

Questo processo culminò con la creazione della Nation of Islam cui avrebbe poi aderito il celebre Malcolm X che ne sarebbe divenuto il più carismatico esponente e avrebbe, a sua volta, reclutato il pugile Cassius Clay che avrebbe poi cambiato il suo nome in Muhammad Ali. Celebre il pellegrinaggio a La Mecca di Malcolm X, nel 1964 e la sua realizzazione dell’universalità dell’Islam, incompatibile con la dottrina di separazione razziale divulgata dalla Nation of Islam. Malcolm X si allontanerà dunque dal movimento che lo aveva adottato sin dai giorni giovanili della sua detenzione presso la Charlestown State Prison, divenendo un leader religioso autonomo con il nuovo nome di El-Hajj Malik El-Shabazz. Come molti sanno, l’esito fu tragico; il 21 febbraio 1965 Malcolm X viene assassinato durante un suo discorso pubblico ad Harlem ( New York) da membri della Nation of Islam. Pochi giorni dopo, ancora ad Harlem, al suo funerale partecipano un milione e mezzo di persone. L’Islam, tuttavia, commenta Oborne, non conquista, negli Stati Uniti, un gran numero di afro-americani. Stando ad un report del 2009 del prestigioso Pew Research Center, solo l’uno per cento di essi si identificherebbe come musulmano. 

Musulmani “buoni” e “cattivi” (in onore ad un pensiero squisitamente binario)

Credo affermare che per conoscere a fondo la storia del Novecento una fondamentale pista da seguire sia quella del petrolio non sia così azzardato.

Ed è la sete — americana — di petrolio a creare i presupposti per lo storico ricevimento di Abdul Aziz Ibn Saud, da parte del morente presidente Franklin Delano Roosevelt, a bordo dell’incrociatore USS Quincy il 14 febbraio 1945, dopo che la Chevron e la Texaco avevano scoperto enormi riserve di oro nero nella parte orientale della penisola arabica.

Da allora e dai sodalizi che ne sarebbero seguiti, i sauditi (che autorizzarono addirittura la costruzione di basi militari statunitensi a protezione degli impianti di estrazione) sarebbero stati, per gli americani e malgrado tutto (ad esempio la scarsa famigliarità con i diritti umani), i musulmani buoni.

Non andò ugualmente bene con l’Iran il cui Primo Ministro Muhammad Mossadegh nazionalizzò, il primo maggio 1952, la Anglo-Iranian Oil Company. Gli inglesi non la presero proprio bene e invocarono l’aiuto della CIA. Il risultato fu l’Operazione Ajax e l’estromissione di Mossadegh, condannato, il 21 dicembre 1953, a 3 anni di carcere  in una prigione militare. Mossadegh morirà agli arresti domiciliari, nella sua casa di Ahmadabad, il 5 marzo 1967 e verrà proibita la celebrazione del suo funerale. La sua impudenza nei confronti dell’anglosfera fu il primo tassello di un puzzle inquietante che avrebbe preso successivamente il nome (a partire dal 1979) di “maledizione iraniana”.  

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, erano buoni i Mujahideen afghani quando combattevano i sovietici, era buono inizialmente Saddam Hussein, soprattutto nel corso della guerra Iran-Iraq, per diventare sempre più cattivo, fino a essere dipinto come Satana in persona quando le immense risorse di petrolio iraqeno non potevano essere più lasciate nelle mani del dittatore di Baghdad. E per legittimare l’invasione del paese, nel marzo 2003 venivano, tra le altre cose, ampiamente documentate tutte le sofferenze che aveva inflitto al suo popolo, in particolare alla minoranza kurda, sin dai tempi in cui era un musulmano “buono”. 

In una parola, lungi dall’essere obiettivi, i giudizi delle élites del “mondo libero”, etero-diretti verso le sue masse (spesso amorfe, per usare un aggettivo caro al tradizionalista Anand Coomaraswamy), sul mondo islamico, sono di volta in volta strumentali. Il tutto avendo, sullo sfondo, una visione sostanzialmente negativa dell’Islam; una sorta di archetipo di pericolosa civiltà rivale. Un’intelaiatura narrativa implementata, ci rivela Oborne, da precisi ambienti religiosi e relativi gruppi d’interesse. Del resto, qualcuno che impersonasse l’Anticristo (dopo i comunisti, ben inteso) ci doveva pure essere…

Sionismo cristiano

Nell’analisi di Oborne l’organizzazione che più di tutte avrebbe cementato le relazioni tra mondo cristiano, mondo ebraico e stato di Israele, negli Stati Uniti sarebbe la International Fellowship of Christians and Jews. Fondata nel 1983 e a lungo diretta dal rabbino ortodosso Yechiel Eckstein (morto il 6 febbraio 2019) — che ha raccolto oltre 250 milioni di dollari per Israele (ovvero per programmi di welfare e per la creazione di un’unità antiterroristica) — è stata particolarmente incoraggiata da Benjamin Netanyahu.

Appoggio incondizionato a Israele è stato espresso, dalla sua fondazione (1989), dalla Christian Coalition of America, il cui scopo è «preservare, proteggere e difendere i valori giudaico-cristiani che hanno fatto degli Stati Uniti il più grande paese al mondo» (The Fate of Abraham, p. 92, trad. mia).

Il fondatore, Pat Robinson avrebbe creato in breve tempo un impero mediatico attorno al suo Christian Broadcasting Network.

«In occasione delle elezioni di metà mandato del 1994, la Christian Coalition ha distribuito 30 milioni di volantini destinati ai votanti cristiani. […] Nel 2000, la Christian Coalition ha stampato 70 milioni di guide al voto che hanno aiutato ad orientare l’elettorato bianco e cristiano verso George W. Bush. Il sionismo cristiano ha reso una porzione significativa della popolazione americana violentemente anti-islamica (anti-araba e anti-palestinese). […] Questo impressionante dispiegamento di forze ha portato alla “benedizione” evangelica di Donald Trump nel 2016». (The Fate of Abraham, pp. 92-93, trad. mia).

Di sionismo cristiano parla anche il professore americano John L. Esposito nel suo The Future of Islam (Oxford University Press, 2010). In particolare cita due attivisti — Rod Parsley e John Hagee — che si sarebbero distinti nel sostegno al candidato repubblicano John McCain alle elezioni presidenziali del 2008 (vinte dall’avversario Barack Obama).

Entrambi, scrive il professor Esposito, credono che la creazione dello stato di Israele, nel 1948 ed il ritorno degli ebrei alla terra promessa siano i pre-requisiti per la seconda venuta di Gesù Cristo, espressa da profezie bibliche come: “Coloro che ti malediranno (Israele), saranno maledetti e coloro che ti benediranno, saranno benedetti” (Genesi 27:29). Il tutto con le lusinghe di leaders israeliani del calibro di Menachem Begin, Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu.

Inutile dire che l’11 settembre è stato interpretato, in questi ambienti, in chiave pre-apocalittica, divenendo benzina sul fuoco dell’isteria collettiva che si sarebbe prestata a giustificare un vero e proprio assalto all’Islam tutto, sotto il vessillo di un oramai conclamato “scontro di civiltà”.

Si è dunque venuto a creare uno scenario che John Esposito, nel suo testo del 2010, delinea con queste parole:

Giornalisti conservatori, alcuni di loro autori di best-seller e/o ospiti di talk show radio-televisivi con forti indici di ascolto, hanno regolarmente impiegato discorsi volti a fomentare l’odio (hate speech) e pericolose invettive non solo contro gli estremisti ma contro l’Islam e i musulmani in generale” (The Future of Islam, p. 20, trad. mia)

I controlli di musulmani (sotto l’egida, ad esempio, del National Security Entry-Exit Registration System, vennero enormemente intensificati negli Stati Uniti, in particolare negli aeroporti e recavano spesso con sé forme di pesante umiliazione ed il diffuso sentimento anti-islamico non poté essere efficacemente contrastato nemmeno dalla presidenza Obama per cui, nel 2008, votarono il 92% dei musulmani americani.

L’elezione di Biden alla Casa Bianca, nel 2020, con la successiva abolizione del Muslim Ban introdotto da Donald Trump, “ha ri-normalizzato”, scrive Oborne, “le relazioni degli Stati Uniti con il mondo islamico, tanto nella politica interna, quanto in quella estera”.

Tuttavia, conclude Oborne, i musulmani negli Stati Uniti rimangono una piccola minoranza di votanti (circa l’1%). Nelle elezioni del 2020 tre membri musulmani del Congresso (su un totale di 438) sono stati rieletti mentre 57 candidati musulmani oggi ricoprono importanti cariche statali.

Pur essendo questi dei segnali di progresso, rimane fermo che i musulmani americani sono oggi ancora lontani dall’esercitare un’influenza sulla politica nazionale e locale negli Stati Uniti. Restano attive, nel paese, forze ideologiche e religiose che odiano l’Islam, come del resto i finanziamenti ed i media che le supportano. Rappresentano un’enorme — anche se non necessariamente insormontabile — barriera, per l’America, alla comprensione del mondo islamico”. (The Fate of Abraham, p. 136, trad. mia)

Dunque il cambio di guardia del nemico ontologico sta avendo gradualmente luogo? Sicuramente oggi “il mondo libero” sembra avere “ben altre gatte da pelare”, con altre “civiltà rivali”.

Gli stessi vecchi assiomi, sostenuti in grande malafede (islamismo radicale=Islam tutto) stanno, giorno dopo giorno, perdendo di consistenza.

È del resto sotto gli occhi di tutti come la stessa universalità dell’Islam ne stia facendo la religione in più rapida crescita quasi ovunque nel mondo, rendendo qualunque, improbabile ipotesi di scontro quantomeno del tutto “anti-economica”. Non è difficile concludere che le diverse civiltà, come alternativa intelligente allo scontro, possono trovare non solo il modo di convivere, anche quello di imparare le une dalle altre come spesse volte, nella lunga e travagliata storia dell’umanità, hanno fatto mostra di saper fare. Ed è probabilmente proprio in virtù di questo che, pur in maniera precaria, continuiamo ad antropizzare il nostro martoriato pianeta!

Siamo con questo primo articolo solo all’inizio del nostro viaggio che ha come obiettivo l’analisi dello sviluppo dei rapporti del “mondo libero” con l’Islam.

Abbiamo visto che negli Stati Uniti l’Islam è stato a lungo marginale e ignorato, in tutti i sensi, dalla schiacciante maggioranza della popolazione che si identificava e si identifica ancora oggi con una narrazione giudaico-cristiana.

Ancora oggi l’Islam, negli Stati Uniti, è la terza religione (contrariamente a quanto accade nei principali paesi europei dov’è, generalmente, al secondo posto), dopo il cristianesimo e l’ebraismo (i cui membri sono più di 5 milioni, una cifra di poco inferiore al numero di ebrei presenti nello stato di Israele).

Abbiamo visto come importanti organizzazioni lavorino ad implementare una solida alleanza tra mondo cristiano e mondo ebraico, esprimendo diverse forme di sionismo cristiano con un’agenda fortemente islamofoba.

Le due decadi successive all’11 settembre sono state particolarmente difficili per i musulmani americani e i musulmani che si recavano negli Stati Uniti. Ne hanno fatto le spese anche personaggi pubblici come il musicista inglese Cat Stevens (convertitosi all’Islam nel 1977, adottando il nuovo nome di Yusuf Islam) cui venne negato, nel 2004, l’ingresso nel paese perché il suo nome figurava nella lista degli indesiderati. Il suo volo Londra-Washington fu dirottato nel Maine’s Bangor International Airport dove il cantautore venne trattenuto per oltre 24 ore e poi rimpatriato.

Il 25 ottobre 2007, al Dulles Airport di Washington DC, viene trattenuto e fatto oggetto di imbarazzanti perquisizioni il ministro inglese Shahid Malik, in viaggio diplomatico su invito della stessa amministrazione Bush.

A fronte di questi due casi clamorosi (in virtù della notorietà dei personaggi coinvolti) è facile immaginare cosa abbiano sofferto migliaia di “musulmani anonimi” negli aeroporti americani, com’è stato, del resto, denunciato da film come Il mio nome è Khan (ma non sono un terrorista) e Il fondamentalista riluttante.

Come si accennava, la distensione dei rapporti tra governo federale e mondo islamico dell’ormai avviata presidenza Biden deve ancora produrre frutti significativi. Il tempo darà le risposte alle domande che credo possano sorgere spontanee a fronte di questa veloce esposizione dei fatti.

È, tuttavia, tempo di cambiar paese, continuando a presentare gli elementi essenziali del testo di Peter Oborne The Fate of Abraham; Why the West is Wrong about Islam

Il nostro viaggio proseguirà in Gran Bretagna, siete tutti invitati a bordo!

Frase in rilievo: 

Ci sono voluti circa vent’anni per scrivere questo libro: la guerra in Iraq e le sue terribili conseguenze sono state l’innesco. Fino ad allora guardavo alla Gran Bretagna come a uno stato virtuoso.