Viaggio senza fine all’inferno: Israele imprigiona centinaia di ragazzi palestinesi ogni anno, le testimonianze

Di Netta Ahituv

Sono afferrati nel cuore della notte, bendati e ammanettati, maltrattati e manipolati per confessare crimini che non hanno commesso. Ogni anno Israele arresta quasi 1.000 ragazzi palestinesi, alcuni dei quali non ancora tredicenni.

Era un tipico freddo e cupo pomeriggio di fine febbraio nel villaggio di Beit Ummar nella West Bank , fra Betlemme ed Hebron. Il tempo non impediva ai bambini della famiglia di Abu-Ayyash di giocare e di scatenarsi all’aperto. Uno di loro, vestito da Uomo Ragno, interpretava la parte saltando agilmente di qua e di là. Improvvisamente scorsero un gruppo di soldati israeliani arrancare nel tracciato fangoso che segue la strada. Immediatamente l’espressione dei loro volti è passata dalla gioia al terrore, e si sono precipitati a casa. Il padre dice che non era la prima volta che si comportavano così. Da quando, nel dicembre precedente, i soldati arrestarono Omar, un ragazzino di dieci anni, questo è diventato un comportamento normale.

Quel bambino di dieci anni è uno delle diverse centinaia di bambini palestinesi che Israele arresta: si stima un numero di 800/1000 bambini ogni anno. Alcuni con meno di 15 anni, altri che non hanno ancora dieci anni.

Una mappatura dei luoghi dove questi arresti avvengono rivela un certo schema: più un villaggio palestinese si trova vicino ad un insediamento israeliano, più possibilità ci sono che i minori lì residenti si trovino un giorno nelle prigioni israeliane. Per esempio, nella cittadina di Azzun, situata ad occidente dell’insediamento Karnei Shomron, non c’è praticamente famiglia che non abbia sperimentato un arresto.

I residenti dicono che negli ultimi cinque anni, più di 150 allievi dell’unico istituto superiore Cittadino sono stati arrestati. Non c’è momento in cui almeno 270 bambini palestinesi si trovino nelle carceri israeliane. La ragione più comune del loro arresto –il lancio di pietre- non racconta tutta la storia. Conversazioni avute con molti di questi ragazzi, così come con i loro avvocati e attivisti per i diritti umani, tra i quali quelli aderenti alla B’Tselem, organizzazione per i diritti umani, rivela uno schema preciso, anche se restano molte domande senza risposta: ad esempio, perché l’occupazione richiede che gli arresti siano violenti e perché è necessario minacciare i ragazzi. Un certo numero di israeliani, la cui sensibilità è offesa dall’arresto di bambini palestinesi, ha deciso di mobilitarsi e di contrastare il fenomeno. I cento membri dell’associazione Parents and Children against detention (Genitori e figli contro la detenzione), si sono attivati nel tessuto sociale e organizzano eventi pubblici, che ci spiegano, “hanno lo scopo di aumentare la consapevolezza della vastità del fenomeno e della violazione dei diritti dei minori palestinesi, e hanno il fine di creare un gruppo di pressione che lavori per la sua soppressione.” Il loro target di riferimento sono gli altri genitori che essi sperano possano rispondere con empatia alle vicende di questi bambini.

Omar Rabua Abu Ayyash.

In genere le critiche al dramma dei bambini incarcerati non mancano. Oltre a B’Tselem che tiene il fenomeno sotto costante monitoraggio, ci sono state anche proteste in paesi esteri. Nel 2013, l’UNICEF, l’agenzia ONU per l’infanzia, ha attaccato “il disumano trattamento dei bambini che entrano in contatto col sistema della detenzione militare, sistema che appare molto diffuso, sistematico ed istituzionalizzato.” Un rapporto precedente di un anno di esperti legali britannici concludeva che le condizioni alle quali i bimbi palestinesi sono sottoposti equivalgono a tortura, e solo cinque mesi fa l’assemblea parlamentare del Concilio d’Europa ha deplorato la pratica israeliana dell’arresto di minori, e ha dichiarato, “bisogna porre fine ad ogni forma di abuso fisico o psicologico dei fanciulli durante l’arresto, il transito e i periodi di attesa, e durante gli interrogatori.”

L’ arresto

La metà circa degli arresti di adolescenti palestinesi avviene a casa loro. Secondo le testimonianze, i soldati israeliani solitamente irrompono in casa nel pieno della notte, afferrano il ragazzo ricercato e lo portano via rapidamente (sono rare le ragazze arrestate), lasciando alla famiglia un documento che attesta il luogo dove sta per essere condotto e di che cosa è accusato. Il documento è in arabo ed ebraico, ma in genere il comandante dei soldati lo compila solo in ebraico, e lo consegna a genitori che non sono in grado di leggerlo e che non sanno perché il loro figliolo è stato portato via. L’avvocata Farah Bayadsi si chiede quale sia la necessità di arrestare dei bambini in questo modo, invece di convocarli per interrogarli rispettando la legge. (I dati ci dicono che solo il 12 percento dei ragazzi riceve una convocazione per l’interrogatorio.)Bayadsi nota, “so per esperienza che quando qualcuno riceve una convocazione per rispondere ad un interrogatorio, vi si reca.” Bayadsi è un’avvocata che lavora con Defense for Children International, una ONG globale che si occupa di detenzione di minori e della promozione dei loro diritti. “la risposta che generalmente riceviamo,” ci dice, “è che si fa in quel modo per ‘ragioni di sicurezza.’ Il che significa che si utilizza una deliberata metodica che non vuole andare incontro ai minori, ma che vuole traumatizzarli per il resto della vita. Infatti, come il portavoce delle Forze Armate Israeliane ha dichiarato ad Haaretz replicando, “La maggior parte degli arresti, sia di adulti come di minori, sono eseguiti di notte per ragioni operative che trovano ragione nel desiderio di preservare un ordinato tessuto di vita e di eseguire azioni specificamente mirate al punto ovunque sia possibile.” Circa il 40 percento dei minori sono detenuti per pubbliche manifestazioni, in genere per il lancio di pietre ai soldati. Questo è stato il caso di Adham Ahsoun, di Azzun. All’epoca aveva 15 anni e stava tornando a casa dopo essere stato nel locale emporio alimentare. Non lontano, un gruppo di bambini aveva iniziato a tirare sassi ai soldati, per poi scappare. Ashoun che non era scappato fu arrestato e messo su un veicolo militare dove, una volta all’interno, fu colpito da un soldato. Alcuni bambini che videro quello che succedeva corsero a casa sua per avvertire la madre. Con in mano il certificato di nascita, lei corse all’entrata della città per provare ai soldati che si trattava solo di un bambino. Ma era troppo tardi; il veicolo era già partito, diretto ad una vicina base dell’esercito, dove avrebbe dovuto attendere l’interrogatorio. Per legge i soldati dovrebbero ammanettare i bambini con le mani davanti, ma molto spesso le mani sono legate dietro. Inoltre, a volte le mani del minore sono troppo piccole per essere ammanettate, come ha detto un soldato della brigata di fanteria Nahal alla ONG Breaking the Silence. In un’occasione, ha raccontato, la sua unità ha arrestato un ragazzo “di circa 11 anni,” ma le manette erano troppo grosse per legare le sue manine. La fase successiva è il viaggio: i ragazzi vengono portati in una base dell’esercito o in una stazione di polizia in un insediamento vicino, dove vengono bendati. “Quando i tuoi occhi sono coperti, l’immaginazione ti porta nei luoghi più spaventosi,” dice un avvocato che rappresenta i ragazzi palestinesi. Molti arrestati non capiscono l’ebraico, cosicché, una volta spinti all’interno del blindato dell’esercito sono completamente estraniati da quanto succede intorno a loro.

Nella maggior parte dei casi, il giovane ammanettato e bendato sarà spostato di luogo in luogo prima di essere effettivamente interrogato. A volte è lasciato fuori, all’aperto, per un po’ di tempo. Oltre al disagio e alla confusione, lo spostamento frequente presenta un altro problema: nel frattempo hanno luogo molti non documentati atti di violenza, nei quali i soldati picchiano i detenuti. Una volta nella base dell’esercito o nella stazione di polizia, il minore è sistemato, sempre bendato e ammanettato, su una sedia o sul pavimento per alcune ore, in genere senza che gli sia dato qualcosa da mangiare. Il “viaggio senza fine all’inferno” è il modo scelto da Baydasi per descrivere questo processo. Il ricordo dell’episodio, aggiunge, “è ancora presente anche anni dopo il rilascio del ragazzo. Provoca in lui un permanente sentimento di insicurezza, che lo accompagnerà per il resto della vita.”

Giovani detenuti palestinesi sotto sorveglianza. 

Una testimonianza fornita a Breaking the Silence da un sergente dell’esercito israeliano relativamente a un episodio occorso nella West Bank illustra la situazione vista dall’altra parte: “Era la prima notte di Hannukah (festa ebraica delle luci, ndt). Due ragazzini stavano tirando sassi sulla Highway 60, sulla strada. Così li abbiamo acciuffati e li abbiamo portati in caserma. Li bendammo e li ammanettammo, le mani davanti, con manette di plastica. Sembravano giovani, fra i 12 e i 16 anni.” Quando i soldati si sono radunati per accendere la prima candela della festa di Hannukah, i prigionieri sono rimasti fuori. “Stavamo urlando e facendo fracasso e usavamo i tamburi come si fa in compagnia,” il soldato ricorda, e rileva che dava per scontato che i monelli non conoscevano l’ebraico, sebbene forse capivano le imprecazioni che ascoltavano. “Diciamo sharmuta [sgualdrina] e altre parole che potevano comprendere grazie all’arabo. Come potevano sapere che non stavamo parlando di loro? Probabilmente pensavano che da un momento all’altro li avremmo bolliti vivi.”

Interrogatorio

L’incubo può avere durate diverse, raccontano gli ex prigionieri. Da tre a otto ore dall’arresto, tempo in cui il ragazzo è stanco e affamato- a volte anche sofferente dopo essere stato picchiato, spaventato per le minacce e magari all’oscuro del perché si trova in quella situazione- viene fatto entrare per l’interrogatorio. Può essere la prima volta in cui le bende gli vengono tolte e le mani liberate. Il processo inizia con una domanda generica, del tipo, “perché tiri sassi ai soldati?” Il resto dell’interrogatorio sale di intensità- uno sbarramento di domande e minacce volte ad indurre il ragazzino a firmare una confessione. In alcuni casi gli si promette del cibo se firmerà.

Secondo le testimonianze, le minacce di chi interroga sono rivolte direttamente al ragazzo (“passerai tutta la vita in galera”), o alla sua famiglia (“porto qui tua madre e la uccido davanti ai tuoi occhi”), o al benessere della famiglia (“se non confessi, ritiriamo a tuo padre il permesso di lavoro in Israele- a causa tua, perderà l’impiego e tutta la famiglia soffrirà la fame”).

“Il sistema qui si mostra più che altro orientato ad una dimostrazione di controllo, più che ad un’applicazione della legge” suggerisce Bayadsy. ”Se il ragazzo confessa, c’è un fascicolo; se non confessa, entra comunque nel circuito criminale ed è seriamente intimorito.”

Imprigionamento

Sia che il ragazzo prigioniero abbia firmato una confessione, sia che non lo abbia fatto, la tappa successiva è il carcere. Either Megiddo , bassa Galilea, o Ofer, nord di Gerusalemme. Khaled Mahmoud Selvi aveva 15 anni quando fu condotto in prigione nell’ottobre del 2017 e gli fu chiesto di spogliarsi per una perquisizione corporale (succede nel 55 percento dei casi). Fu lasciato per 10 minuti in piedi, nudo e al freddo insieme ad un altro ragazzo.

I mesi in detenzione, in attesa del processo, e in seguito, se è stata emessa una sentenza, trascorrono nella sezione dedicata ai giovani dell’edificio per prigionieri politici. “Non possono parlare per mesi con le loro famiglie ed è permesso un solo colloquio mensile attraverso un vetro,” racconta Bayadsi.

Il numero delle ragazze arrestate è molto inferiore a quello dei ragazzi, tuttavia non esiste una sezione dedicata a loro, così vengono rinchiuse nella prigione Sharon femminile, insieme alle adulte.

Il processo

L’aula del tribunale è normalmente il luogo dove i genitori vedono per la prima volta il loro ragazzo, a volte molte settimane dopo l’arresto. Il pianto è la reazione più comune alla vista del giovane detenuto, che veste una divisa da prigioniero, è ammanettato ed è seguito da una nuvola di incertezza che incombe ovunque. Le guardie carcerarie israeliane non permettono ai genitori di avvicinarsi al ragazzo, e li invitano a sedersi sulla panca riservata ai visitatori. Le spese per la difesa sono a carico o della famiglia o dell’Autorità Palestinese.

In un recente rinvio a giudizio per numerosi detenuti, un ragazzo non smetteva di sorridere alla vista di sua madre, mentre un altro abbassava lo sguardo, forse per nascondere le lacrime. Un altro detenuto sussurrava a sua nonna, che era venuta a vederlo, “Non ti preoccupare, dì a tutti che sto bene.” Il ragazzo vicino a lui stava in silenzio e guardava sua madre che muoveva le labbra verso di lui e gli diceva, “Omari, ti voglio bene.”

Mentre i ragazzi e le loro famiglie cercano di scambiarsi qualche parola e qualche sguardo, il procedimento va avanti, come in un universo parallelo.

L’avvocato Farah Bayadsi. “È chiaro, che lo scopo degli arresti è più una dimostrazione di controllo che un’applicazione della legge.”

La trattativa

La grande maggioranza dei processi termina con un patteggiamento- in arabo, Safka, una parola che I bimbi palestinesi conoscono bene. Anche se non ci sono prove evidenti per accusare il ragazzo di un lancio di pietre, il patteggiamento è spesso l’opzione preferita. Se il detenuto non accetta questa soluzione, il processo può durare a lungo ed egli rimarrà in carcere fino alla fine del procedimento. La condanna dipende quasi interamente dalla prova della confessione, dice l’avvocato Gerard Horton , della British-Palestinian Military Court Watch (Osservatorio Giuridico Militare Anglo-Palestinese ), il cui compito, secondo il suo sito web, riguarda il “monitoraggio del trattamento dei bambini detenuti in Israele.” Secondo Horton, che ha base a Gerusalemme, i minori sono più portati a confessare quando non conoscono i loro diritti, quando sono spaventati e non hanno aiuto e sollievo fino alla confessione.

A volte a un detenuto che non confessa viene detto che dovrà aspettarsi di andare spesso in tribunale. Ad un certo punto, anche il ragazzo più forte dispererà, ci spiega l’avvocato.

L’unità dell’esercito israeliano adibita alla comunicazione esterna ha affermato in risposta che: “I minori hanno diritto ad essere rappresentati da un legale, come qualsiasi accusato, ed hanno diritto a condurre la loro difesa come piace a loro. A volte scelgono di ammettere la colpa nel quadro di un patteggiamento ma se si dichiarano non colpevoli, un procedimento che comprende un’audizione ha luogo, come nei procedimenti delle corti civili in Israele, alla cui conclusione una decisione legale è trasmessa sulla base delle prove presentate alla corte. Le deliberazioni sono emesse in breve tempo e sono efficientemente eseguite nel rispetto dei diritti dell’accusato.”

Controllare la comunità

Secondo i dati raccolti dalla ONG British-Palestinian , il 97 percento dei giovani arrestati dall’esercito Israeliano vive in relativamente piccole località che si trovano a non più di due chilometri da un insediamento. Ci sono per questo numerose ragioni. Una implica la costante frizione – fisica e geografica- fra palestinesi da un lato e soldati e coloni dall’altro. Tuttavia, secondo Horton, c’è un altro, non meno interessante modo di interpretare questo dato, ossia dalla prospettiva di un comandante israeliano, il cui compito è la protezione dei coloni. Nel caso in cui siano riportati incidenti con lanci di pietre, egli dice, il comandante darà per scontato che i palestinesi coinvolti siano giovani con un’età compresa fra i 12 e i 30 anni, e che provengano dal villaggio più vicino. Spesso l’ufficiale si affiderà al collaborazionista del villaggio, che gli fornisce i nomi di qualche ragazzo. Il passo successivo è “l’entrata notturna nel villaggio e il loro arresto”, continua Horton. “E sia che questi giovani siano o meno quelli che tiravano pietre, tu hai già spaventato l’intero villaggio” – che egli dice, è uno strumento efficace per controllare una comunità. “Quando così numerosi giovani sono arrestati in questo modo, è evidente che alcuni di loro sono innocenti,” egli osserva. “Il fatto è che questo deve sempre accadere, perché i ragazzi crescono e altri bambini entrano in scena. Ogni generazione deve sentire il braccio forte dell’esercito israeliano. Secondo il portavoce dell’esercito israeliano: “In anni recenti, molti minori, alcuni fra loro molto giovani, sono stati coinvolti in incidenti violenti, istigazione e perfino terrorismo. In questi casi non c’è alternativa alle misure istituzionali, che includono l’interrogatorio, la detenzione e il processo, entro i limiti delle prescrizioni di legge. In quanto parte di queste procedure, l’esercito israeliano opera per preservare e garantire i diritti dei minori. Nel far osservare la legge contro di loro, si considera la loro età. Così, dal 2014, fra le altre misure, in certi casi, i minori sono invitati a presentarsi alla stazione di polizia e non sono arrestati a casa. Inoltre, procedimenti relativi a minori hanno luogo nel tribunale militare minorile, che esamina la serietà del reato che è attribuito al minore e il pericolo che implica, sempre tenendo conto della giovane età e le circostanze particolari. Ogni imputazione di violenza da parte di soldati dell’esercito è esaminata, e i casi in cui le azioni dei soldati sono giudicate sbagliate sono trattati severamente.”

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, ha affermato in risposta: “Lo Shin Bet, in collaborazione con le forze armate israeliane e la polizia israeliana, opera contro ogni elemento che minaccia di danneggiare la sicurezza di Israele e i suoi cittadini. Le organizzazioni terroristiche fanno uso massiccio di minori e li reclutano per far loro compiere attività terroristica, e c’è una tendenza generale a coinvolgere minori in iniziative locali di attività terroristica. Gli interrogatori di sospetti terroristi sono condotti dallo Shin Bet nel rispetto della legge, e sono soggetti alla supervisione di organismi interni ed esterni, che includono tutti i livelli del sistema legale. Gli interrogatori di minori sono eseguiti con particolare sensibilità e considerando la loro giovane età.”

Khaled Mahmoud Selvi

Khaled Mahmoud Selvi, arrestato a 14 anni (ottobre 2017)

Sono stato arrestato quando avevo 14 anni, tutti i ragazzi della famiglia furono arrestati quella notte. Un anno dopo sono stato nuovamente arrestato con mio cugino. Mi dissero che avevo bruciato degli pneumatici. Successe mentre dormivo. Mia madre mi svegliò. Pensai che fosse l’ora di andare a scuola, ma quando aprì gli occhi vidi i soldati sopra di me. Mi dissero di vestirmi, mi ammanettarono e mi condussero fuori. Indossavo una camicia a maniche corte e avevo freddo quella notte. Mia madre li pregò di farmi mettere una giacca, ma non vollero. Infine, lei mi gettò la giacca, ma non permisero che infilassi le braccia nelle maniche.

Qualcuno passò e disse che se non avessi confessato, avrei passato il resto della mia vita in galera

“Mi portarono all’insediamento Karmei Tzur con gli occhi bendati, e avevo l’impressione che stessero solo girando in tondo. Mentre camminavo c’era un fosso sulla strada, mi spinsero e mi ci fecero cadere dentro. Da lì mi portarono alla stazione di polizia di Etzion. Là fui messo in una stanza dove i soldati entravano e mi prendevano a calci. Qualcuno passò e disse che se non avessi confessato, avrei passato il resto della mia vita in galera.

Alle sette del mattino mi dissero che l’interrogatorio sarebbe iniziato. Chiesi di andare in bagno prima di iniziare. Ero bendato e un soldato mise una sedia davanti a me. Caddi. L’interrogatorio durò un’ora. Mi dissero che ero stato visto bruciare gomme e che questo aveva interferito con l’aria del traffico. Dissi loro che non ero stato io. Non ho visto un avvocato fino al pomeriggio, e lui chiese ai soldati di portarci da mangiare. Fu la prima volta che mangiavo dalla notte precedente.

Alle sette di sera fui mandato alla prigione di Ofer, e vi sono rimasto per sei mesi. In quel periodo sono andato in tribunale più di dieci volte. Ci fu anche un altro interrogatorio, perché mentre interrogavano un mio amico, gli dissero che se non avesse confessato e dato informazioni su di me, avrebbero preso sua madre e le avrebbero sparato davanti a lui. Così lui ha confessato e dato informazioni su di me. Non ce l’ho con lui. Era il suo primo arresto, era spaventato.

Khaled Shtaiwi, arrestato a 13 anni (novembre 2018)

La storia di Khaled la racconta suo padre, Murad Shatawi: “La notte in cui fu arrestato, fui svegliato da una telefonata di mio nipote. Mi disse che la casa era circondata dai soldati. Mi alzai e mi vestii, perché mi aspettavo di essere arrestato a causa delle manifestazioni non violente che avevo organizzato nei venerdì. Non mi sarei mai aspettato che avrebbero preso Khaled. Mi chiesero il nome dei miei figli. Dissi Mumen e Khaled. Quando dissi Khaled, dissero, ‘sì, lui. Siamo venuti a prenderlo.’ Ero scioccato, tutti quei soldati per arrestare un ragazzo di 13 anni. Lo ammanettarono e lo bendarono e lo condussero a piedi verso est, verso l’insediamento Kedumim, imprecando e colpendolo ogni tanto. Vidi tutto questo dalla finestra. Mi diedero un documento attestante la legalità dell’arresto e che sarei potuto andare alla stazione di polizia. Quando vi arrivai, potei vederlo attraverso un piccolo foro praticato in una porta. Era ammanettato e bendato. Rimase così dal momento dell’arresto fino alle tre del pomeriggio del giorno successivo. Quella è un’immagine che non mi abbandona; non so come potrò continuare a vivere con quell’immagine in testa. Fu accusato di aver lanciato pietre, ma dopo quattro giorni lo rilasciarono, perché non aveva confessato e non c’erano prove contro di lui. Durante il processo il giudice che voleva parlare con Khaled dovette piegarsi in avanti per vederlo, perché Khaled era così piccolo. Cosa aveva fatto per doverlo vedere in quel modo? Sono il padre. Questo dice tutto. Non ha più parlato di questo finché non è uscito, tre mesi fa. Questo è un problema. Ora sto organizzando un “giorno di psicologia” nel villaggio, per aiutare tutti i bambini che sono stati arrestati. Su 4.500 abitanti del villaggio, 11 ragazzi con meno di 18 anni sono stati arrestati; 5 avevano meno di 15 anni.

Omar Rabua Abu Ayyash, arrestato a 10 anni (decembre 2018)

Omar sembra più piccolo per la sua età. È timido e tranquillo, e non è facile parlargli dell’arresto, così i suoi famigliari raccontano gli avvenimenti al suo posto. La madre di Omar: “È successo un venerdì alle dieci del mattino, quando non c’è scuola. Omar stava giocando davanti a casa, tirava pietre agli uccelli che cinguettavano sull’albero. I soldati, che erano sulla torre di guardia non lontano da qui, guardarono cosa stava facendo e corsero verso di lui. Scappò, ma lo afferrarono e lo gettarono a terra. Cominciò a piangere e si bagnò i pantaloni. Gli diedero qualche calcio. Sua nonna, che vive qui sotto, uscì immediatamente e cercò di strapparlo ai soldati, ci fu una zuffa e delle grida. Alla fine, lo lasciarono andare e andò a casa per cambiarsi i pantaloni. Un quarto d’ora dopo, i soldati ritornarono, questa volta col loro comandante, che disse che doveva arrestare il ragazzo per il lancio di pietre. Quando gli altri bambini della famiglia videro i soldati in casa, si fecero anche loro pipì addosso.

Il padre di Omar continua la storia: “Dissi al comandante che aveva meno di 12 anni, e che dovevo accompagnarlo, così andai insieme a lui sulla jeep all’insediamento Karmei Tzur. Là, i soldati gli dissero di non tirar più pietre, e che se avesse visto altri bambini farlo, avrebbe dovuto riferirlo. Da lì lo portarono negli uffici dell’autorità palestinese a Hebron. Tutta la storia è durata circa 12 ore. Gli hanno dato qualche banana da mangiare in tutto quel tempo. Adesso, se i bambini vedono una jeep di militari, corrono dentro. Da allora hanno smesso di giocare all’aperto. Prima dell’incidente, i soldati avevano l’abitudine di venire qui a giocare a calcio con i bambini. Ora anche loro hanno smesso di venire.

Tareq Shtaiwi, arrestato a 14 anni (gennaio 2019)

Khaled Mahmoud Selvi
  • “Erano circa le due del pomeriggio, e avevo la febbre quel giorno, così il papa mi ha mandato da mio cugino, non lontano, perché è in pratica il solo luogo nel villaggio ad avere il riscaldamento. All’improvviso sono apparsi dei soldati. Mi hanno visto mentre li guardavo dalla finestra, così spararono alcuni colpi alla porta dell’edificio, l’abbatterono e salirono al piano superiore. Mi spaventai e scappai dal secondo al terzo piano, ma mi fermarono e mi portarono fuori. Non mi permisero di prendere il cappotto anche se faceva freddo e avevo la febbre. Mi portarono a piedi a Kedumin, ammanettato e bendato. Mi fecero sedere su una sedia. Sentivo porte e finestre sbattere con violenza, pensai che volessero spaventarmi. Dopo poco, mi portarono da Kedumin a Ariel, e lì sono rimasto cinque, forse sei ore. Mi accusarono di aver tirato pietre con un amico qualche giorno prima. Dissi loro che non avevo tirato pietre. La sera mi portarono al centro detentivo di Hawara; un soldato mi disse che non me ne sarei più andato. Al mattino mi portarono alla prigione di Megiddo. Non avevano tenute da prigioniero della mia misura, perciò mi hanno dato abiti di bambini palestinesi che erano stati lì prima di me. Ero il più giovane della prigione.Ho avuto tre audizioni in tribunale, e dopo 12 giorni, durante l’ultima audizione mi fu detto che era abbastanza, che mio padre avrebbe pagato una multa di 2.000 shekels [525 $] e che avrei avuto tre anni con la condizionale. Il giudice mi chiese cosa avrei fatto una volta fuori, gli risposi che sarei tornato a scuola e che non sarei salito di nuovo al terzo piano. Dal mio arresto, il mio fratellino che ha 7 anni, ha paura a dormire nella stanza dei bimbi e dorme con i miei genitori.

Adham Ahsoun, arrestato nell’ottobre del 2018, il giorno del suo quindicesimo compleanno.

Adham Ahsoun
  • “Il giorno in cui ho compiuto 15 anni, sono andato allo spaccio nel centro del villaggio per comprare poche cose. Verso le 7 e 30 di sera, i soldati entrarono nel villaggio e i ragazzini cominciarono a tirar pietre contro di loro. Mentre stavo tornando a casa con la mia borsa, mi hanno preso. Mi hanno portato all’entrata del villaggio e mi hanno messo su una Jeep. Uno dei soldati cominciò a colpirmi. Poi mi hanno messo manette di plastica, mi hanno coperto gli occhi e mi hanno portato così alla base militare di Karnei Shomron. Sono rimasto lì circa un’ora. Non potevo vedere nulla, ma ebbi la sensazione che un cane mi stesse annusando. Avevo paura. Da lì mi portarono in un’altra base militare e mi ci hanno lasciato tutta la notte. Non mi diedero nulla da bere o da mangiare. Al mattino, mi hanno portato al centro per gli interrogatori di Ariel. Chi mi interrogava mi disse che i soldati mi avevano colto a tirar pietre. Gli risposi che non avevo tirato pietre e che stavo tornando a casa dopo essere stato allo spaccio. Quindi chiamò i soldati nella stanza dell’interrogatorio. Dissero che stavo mentendo, ‘l’abbiamo visto che tirava pietre.’ Gli dissi che davvero non avevo tirato pietre, ma mi minacciò di arrestare mia madre e mio padre. Fui preso dal panico. Gli chiesi, ‘ cosa volete da me?’ mi rispose che voleva che firmassi che avevo tirato pietre ai soldati, così firmai. In tutto quel tempo non parlai e neppure vidi un avvocato. Patteggiai che se avessi confessato avrei avuto una condanna a cinque mesi. Dopo me ne condonarono un terzo per buona condotta. Uscii dopo tre mesi e con una multa di 2.000 shekels. In prigione ho cercato di tenermi alla pari con quello che perdevo a scuola. Gli insegnanti mi dissero che avrebbero considerato solo i voti del secondo semestre, così non avrei perso la possibilità di essere accettato all’università a ingegneria.

Muhmen Teet, arrestato a 13 anni (novembre 2017)

Muhmen Teet

“Alle 3 del mattino ho sentito bussare alla porta. Il babbo entrò in camera e disse che c’erano soldati in sala e volevano che mostrassimo loro le carte di identità. L’ufficiale al comando disse a mio padre che mi avrebbero portato a Etzion per interrogarmi. Quando fui fuori, mi ammanettarono e mi bendarono e mi misero in un veicolo militare. Andammo a casa di mio cugino; e anche lui fu arrestato. Da lì andammo a Karmel Tzur dove aspettammo bendati e ammanettati fino al mattino. Al mattino presero mio cugino per interrogarlo, a me mi lasciarono stare. Dopo averlo interrogato, ci portarono alla prigione di Ofer. Dopo un giorno lì, ci riportarono a Etzion e dissero che avrebbero interrogato me. Prima dell’interrogatorio, mi portarono in una stanza, dove c’era un soldato che mi schiaffeggiò. Dopo avermi colpito, mi portò nella stanza dell’interrogatorio. Chi mi interrogava disse che avevo bruciato degli pneumatici, e che per quel motivo, il bosco vicino alla casa aveva preso fuoco. Dissi che non ero stato io, e firmai un documento che l’interrogatore mi porse. Il documento era scritto anche in arabo, ma l’interrogatore lo compilò in ebraico. Quindi fui riportato alla prigione di Ofer. Ho avuto sette audizioni in tribunale, dissi che non avevo voluto confessare, che non avevo capito quello che firmavo e che non era vero. Così mi riportarono all’interrogatorio. Di nuovo non confessai. Di nuovo mi interrogarono e di nuovo non confessai. Questo è quello che successe in tre interrogatori. Infine, il mio avvocato fece un accordo con il pubblico ministero che se avessi confessato in tribunale –cosa che feci- e la mia famiglia avesse pagato 4.000 shekels, mi avrebbero rilasciato. Sono un bravo studente, mi piace il football, mi piace giocarlo e guardarlo. Da quando sono stato arrestato, difficilmente esco per fare un giro.

Khalil Zaakiq, arrestato a 13 anni (gennaio 2019)

Khalil Zaakiq

Erano circa le due del mattino. Qualcuno bussò alla porta. Mi svegliai e vidi tanti soldati in casa. Ci dissero che dovevamo tutti sederci sul sofà della sala e non muoverci. Il comandante chiamò Uday, il mio fratello grande, gli disse di vestirsi e gli disse anche che era agli arresti. Era la terza volta che l’arrestavano. Anche mio padre una volta fu arrestato. Di colpo mi dissero di mettermi le scarpe e di andare con loro. Ci portarono fuori casa, ci legarono e ci coprirono gli occhi. In quel modo andammo alla base di Karmei Tzur. Lì mi fecero stare per terra ammanettato e bendato per circa tre ore. Alle cinque circa del mattino ci portarono a Etzion. Durante il percorso nella Jeep ci colpirono, io fui schiaffeggiato. A Etzion fui mandato per essere controllato da un dottore. Mi chiese se mi avessero picchiato e io gli risposi affermativamente. Non fece nulla, si limitò a misurarmi la pressione e disse che potevo sopportare un interrogatorio. Il mio interrogatorio iniziò alle otto del mattino. Mi chiesero di dire i nomi dei bambini che avevano tirato pietre. Risposi che non lo sapevo, e allora chi mi stava interrogando mi diede un ceffone. L’interrogatorio andò avanti per quattro ore. Dopodiché fui messo in uno stanzino buio per una decina di minuti e quindi riportato nella stanza dell’interrogatorio, ma lì si limitarono a prendere le mie impronte digitali e mi sistemarono in una cella per un’ora. Dopo un’ora, Uday ed io fummo portati alla prigione di Ofer. Non ho sottoscritto confessioni, né relativamente a me né per altri. Fui rilasciato dopo nove giorni perché non ero colpevole. I miei genitori dovettero pagare una cauzione di 1.000 shekels. Il mio fratellino, che ha 10 anni, da allora è rimasto scosso. Quando sente bussare alla porta si fa pipì addosso.

 

L’articolo originale è stato pubblicato su Haaretz con il titolo: ‘Endless Trip to Hell’: Israel Jails Hundreds of Palestinian Boys a Year. These Are Their Testimonies

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