Aung San Suu Kyi e Orban quando l’internazionale islamofoba è trasversale

Per molti anni, Aung San Suu Kyi è stata considerata un eroina in Occidente. Ha subito un lungo periodo di arresti domiciliari, nella sua solitaria battaglia per la libertà e la democrazia in Myanmar e questo l’ha resa un’icona quasi altrettanto grande di Nelson Mandela. Nel 1991, è stata insignita del Nobel per la pace; Mandela lo ebbe due anni dopo.

Ma i tempi sono cambiati. Da quando ha assunto la carica di Consigliere di Stato, corrispondente in pratica a quella di primo ministro, della Birmania, si è trasformata nell’apologeta politica della pulizia etnica circa 25.000 musulmani Rohingya.

Altri 700.000 musulmani sono stati cacciati dalle loro case e le forze di sicurezza sono state accusate dai gruppi per i diritti umani dello stupro sistematico di donne e ragazze Rohingya.

Eppure, Aung San Suu Kyi crede che il Myanmar non abbia fatto nulla di male. Questo è apparso con estrema chiarezza dopo il suo incontro di mercoledì con il primo ministro ungherese Viktor Orban a Budapest.

Una dichiarazione rilasciata dopo l’incontro ha sottolineato la grande convergenza dei due leader, in particolare hanno concordato su “l’emergere della questione della convivenza con popolazioni musulmane in continua crescita”.

Sia Orban che Aung San Suu Kyi hanno sposato la pericolosa teoria dello “scontro di civiltà” espressa dall’accademico americano Samuel Huntington negli anni ’90. Per Orban, il cristianesimo è l’ultima speranza dell’Europa di fronte all’espansione islamica, e l’Ungheria è l’ultima linea di difesa. Ciò ha portato Orban a prendere di mira i migranti musulmani, che ha qualificato spesso come come terroristi.

Per Aung San Suu Kyi, l’Islam rappresenta una minaccia esistenziale per la cultura buddista del Myanmar. Già nel 2013, è stata criticata per aver negato la pulizia etnica dei musulmani nella regione, giustificando la violenza con un “clima di paura”.

L’Occidente era così ansioso di sostenere Aung San Suu Kyi nella sua battaglia contro i generali della dittatura militare del Myanmar che ha ignorato i segni della sua adesione al nazionalismo buddista che si è manifestato così brutalmente negli ultimi anni.

L’islamofobia al centro della retorica nazionalista

La buddista Aung San Suu Kyi e il cristiano Orban sono parte integrante di un movimento politico inter-continentale che vede l’Islam come una minaccia mortale per i paesi che guidano. È un sentimento condiviso dalla Cina di Xi Jinping, che sta attualmente conducendo un genocidio culturale contro gli uiguri del Turkmenistan orientale e la situazione è preoccupante nell’India di Narendra Modi, dove sempre più musulmani subiscono un livello di persecuzione non visto dall’indipendenza.

Orban (R) ha dichiarato ad Aung San Suu Kyi che il governo ungherese ha ammirazione per tutto ciò che ha fatto per la “trasformazione democratica” del suo paese

Questo incontro tra Orban e Aung San Suu Kyi pone importati questioni. Sembra che l’attacco ai musulmani sia diventato un marchio di fabbrica dei regimi nazionalisti e che la detenzione, l’uccisione e la tortura siano giustificate dall’idea che tutti i musulmani sono un potenziale nemico interno.

Lo stesso discorso anti-islamico può essere ascoltato all’interno del Partito conservatore al governo britannico, così come nel partito di destra Brexit e in quel che rimane del UKIP. Un linguaggio comune dei partiti di estrema destra nel continente europeo.

Poi ovviamente, c’è il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, le sue richieste di vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai musulmani e la sua agenda generale anti-immigrazione sono quasi identiche a quelle di Orban. I due erano si sono reciprocamente  elogiati durante la visita del premier magiaro allaCasa Bianca il mese scorso. Trump inoltre non ha perso occasione per manifestare il suo sostegno aimonaci violentemente anti-musulmani del Myanmar.

La storia che si ripete 

Meno di 25 anni fa, oltre 8.000 bosniaci musulmani furono uccisi nel massacro di Srebrenica. I massacratori serbo-bosniaci consideravano le loro azioni come una difesa della loro identità nazionale ed etnica. Altri, tutt’oggi, continuano a negare che il genocidio abbia avuto luogo.

Il comandante dell’esercito che ha compiuto la strage di Srebrenica è stato Ratko Mladic, altrimenti noto come il “Macellaio della Bosnia”. È stato infine giudicato per genocidio e condannato all’ergastolo due anni fa. Ma quando è stato portato in tribunale per la prima volta nel 2011, queste erano le sue parole: “Ho difeso la mia gente e il mio paese”.

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