Santa Sofia: la mossa elettorale di Erdogan è un’arma a doppio taglio

La Corte di Stato turca a giorni si esprimerà sulla validità dell’atto del Governo che trasformava Ayasofya (o, come viene chiamata più comunemente in Italiano, Santa Sofia) da moschea a museo. L’avvicinarsi della sentenza ha alimentato una vecchia polemica politica ed è molto indicativa del clima politico in cui si trova il paese ultimamente. Anche se la sentenza non dovesse essere a favore dell’annullamento, il governo, comunque, ha la possibilità di riaprirla al culto. 

La costruzione di Ayasofya iniziò nel 532 sotto il regno di Giustiniano e divenne presto la sede del Patriarcato Greco ortodosso. Quando fu completata, nel 537, essa rappresentava la più grande chiesa del mondo cristiano e l’apice dell’architettura bizantina.

L’imponente chiesa rimase la più grande al mondo fino a quando, nel 1520, non fu superata dalla Cattedrale di Siviglia, un’imponente struttura costruita convertendo la moschea almohade di Abu Yaqub Yusuf, a sua volta completata nel 1198, in chiesa ed ampliata dopo la conquista della città da parte di Ferdinando III.

Ad Ayasofya toccò un destino opposto. Quando il 29 maggio 1453, Mehmet il Conquistatore prese la capitale bizantina la convertì in moschea. La cattedrale versava oramai in pessime condizioni dopo i danni subiti dai recenti terremoti e la decadenza politica ed economica dell’Impero bizantino. Furono gli ottomani a restaurarla, ad ampliarla con nuove strutture e minareti. Ayasofya rimase la principale moschea della città fino a quando non fu costruita la Moschea Blu (o meglio Sultanahmet Camii), nel 1616, ma rimase sempre una delle meraviglie di Istanbul e ispirò molte opere del famoso architetto Sinan che ne riprodusse la struttura in diverse sue opere, tra le quali, la Kılıç Ali Paşa Camii—il complesso ordinatogli dall’ammiraglio di origini calabresi.

La grandiosa moschea rimase, tuttavia, uno dei centri principali della vita religiosa nella capitale, ed era qui che i sultani partecipavano alle celebrazioni della Laylat-ul-Qadr o le preghiere della Eid.

Dopo il crollo dell’Impero ottomano e la fondazione della moderna Repubblica di Turchia, nel 1931, la moschea fu chiusa al culto e, successivamente, trasformata in museo dopo che l’Istituto americano di studi bizantini iniziò i lavori per la pulitura dei magnifici mosaici, che erano stati coperti durante la conversione in moschea.

La trasformazione in museo di Ayasofya è stata sempre presentata come una delle mozioni per trasformare il paese in una repubblica laica da parte di Mustafa Kemal Atatürk. In realtà, così come l’abolizione del Califfato ottomano nel 1924, più che di laicismo si tratta di una di quelle politiche del nuovo governo kemalista per rassicurare le forze coloniali. Infatti, la rivoluzione kemalista fu il primo movimento anticoloniale a sconfiggere le grandi potenze. Per poter entrare nella comunità internazionale, però, la giovane repubblica doveva dimostrare che non aveva mire su altri territori e non era ostile ai paesi coloniali.

Uno dei simboli della supremazia musulmana veniva, dunque, trasformato in museo per dimostrare che il nuovo paese non era ostile e non aveva pretese di superiorità. Molti anni dopo, un professore universitario, Yusuf Halaçoğlu, prima direttore della Società storica turca (anche questa istituita da Atatürk) e poi parlamentare del partito nazionalista MHP, affermò che la conversione in museo era un atto illegittimo e che la firma di Atatürk sul documento fu addirittura falsificata—probabilmente dal Presidente del Consiglio di allora İsmet İnönü.

L’atto non sarebbe valido anche perché Ayasofya era un waqf—ovvero una fondazione pia—e la sua destinazione non poteva essere modificata.

La Corte di Stato, oggi, si trova a prendere una decisione su un atto governativo dopo tutti questi anni e dopo che neanche Atatürk, che morì nel 1938, si oppose mai a questa decisione. Si tratta ovviamente di una sentenza fortemente politica che arriva quando l’opinione pubblica è occupata dalla crisi del Covid-19 e dalle difficoltà economiche.

In realtà, riaprire nuovamente Ayasofya al culto è un vecchio cavallo di battaglia di movimenti musulmani e nazionalisti che già negli anni ’80 ottennero che una sala adiacente alla vecchia cattedrale fosse adibita a moschea. Nei diciotto anni di governo, l’AK Parti si era, invece, visto bene dal trasformare il museo anche perché è il più visitato (e anche con il biglietto più salato) del paese e che, a causa delle immagini sacre dei suoi mosaici, non è per niente adatta al culto islamico. Infine, un cambio della destinazione sarebbe interpretato negativamente dall’opinione pubblica internazionale, che già guarda con ostilità la Turchia e il suo governo.

Con un cambio di rotta, durante la campagna nelle ultime elezioni amministrative ad Istanbul Recep Tayyip Erdoğan aveva promesso di aprire al culto Ayasofya in caso di vittoria. Il suo partito le elezioni locali le ha perse, ma dopo pochi mesi è ritornato alla carica su Ayasofya anche con l’appoggio dei nazionalisti che sostengono il suo governo dall’esterno.

Questa insistenza è dovuta al fatto che Erdoğan si trova, oggi, in grandi difficoltà politiche. Anche se il Presidente mantiene alto il suo consenso personale, il suo partito sta sprofondando e, secondo i sondaggi MetroPOLL, si troverebbe oggi al 30% dei consensi e ben 37% degli elettori AK Parti sono oggi indecisi su chi voterebbero. Molti di questi indecisi, in caso di elezioni, potrebbero astenersi o potrebbero votare per uno dei nuovi partiti del centro destra fondati da ex esponenti dell’AK Parti, Ali Babacan e Ahmet Davutoğlu. Questo significa che anche se in coalizione con il MHP, i due partiti difficilmente sarebbero capaci di ottenere una maggioranza in parlamento e le elezioni presidenziali sarebbero a rischio.

Ayasofya è, dunque, un disperato tentativo per ricompattare il proprio elettorato, che si è sempre dimostrato vicino al suo leader nei momenti difficili o quando viene attaccato. Puntualmente, dimenticando che si tratta di una questione squisitamente interna, la Grecia e Mike Pompeo si sono già dichiarati contrari ad un eventuale cambiamento dello status di Ayasofya, non facendo altro che accendere i sentimenti nazionalisti in Turchia da sempre alimentati dal detto “Türk’ün Türk’ten başka dostu yoktur” (un turco può trovare un amico solo in un altro turco)

Tuttavia, un ulteriore danno all’immagine del paese non farebbe che aumentare le difficoltà economiche e l’isolamento sul piano internazionale. Quindi a medio termine gli elettori che sono oggi indecisi, tornerebbero a dubitare delle azioni del governo quando i problemi reali torneranno ad affliggerli.