Velo e liberazione: l’oppressione neo-coloniale messa a nudo

“Non sei forse bella? Togliti il velo!” Così uno dei poster coloniali francesi più famigerati ordinava alle donne musulmane di spogliarsi. Il poster coloniale in questione non fu certo realizzato da qualche movimento della società civile. Esso fu realizzato dal quinto ufficio d’azione psicologica dell’armata coloniale. 

Il poster però non è che una goccia nel mare dell’oppressione coloniale in cui i colonialisti volevano che i musulmani sprofondassero ed annegassero, cosa che ancora oggi i nuovi colonialisti vorrebbero.  

Il caso studio dell’Algeria

Il caso studio dell’Algeria sotto l’occupazione francese è emblematico. Per piegare l’animo dei musulmani algerini, l’esercito francese organizzava periodicamente dei veri e propri “spettacoli” degni dei migliori (o sarebbe meglio dire peggiori) teatri. In questi assembramenti l’esercito riuniva folle di musulmani infiltrando in mezzo a loro donne vicine ai coloni e a cui veniva in precedenza dato un copione. Il copione era semplice e puntava tutto sul “colpo di scena” e nulla era lasciato al caso. Inquietante è la somiglianza con le messe in scena naziste in cui con l’uso di altoparlanti ed effetti scenici si piegava la psiche dei presenti per dare l’illusione di forza e di consenso: 

“Un gruppo di donne ‘musulmane’ vestite tradizionalmente si radunavano su un palco. Quindi, davanti agli occhi degli spettatori tesi e di un gruppo di giornalisti internazionali appositamente invitati, veniva dato loro segno e contemporaneamente iniziavano a togliersi il velo. Magari salivano sul podio una ad una, si levavano il velo e dichiaravano pubblicamente di liberarsi dalla tradizione patriarcale e di abbracciare l’emancipazione.

Ai soldati veniva ordinato di mescolarsi tra il pubblico e incoraggiare le donne locali senza velo ad unirsi a loro, per sostenere lo spettacolo di svelamento sul palco con applausi ed espressioni di simpatia. Tutto era messo in scena con cura, nessun dettaglio drammaturgico era lasciato al caso.” (Kaiser, 2015)

La storia di Monique Améziane

Fra le donne che presero parte allo spettacolo di denudamento coloniale una in particolare spiccava. Qualcosa in lei la rendeva la perfetta “poster girl” coloniale. Forse era la foga con cui partecipava alla scenata, forse era la sua giovane età di 18 anni o forse era quel vestito rosso e blu che ai francesi non poteva che ricordare “la Marianne”, la donna del famoso dipinto che con la bandiera francese in mano ed il seno al vento ha rappresentato per anni la personificazione della Repubblica francese.

Quella ragazza era Monique Améziane, la cui storia è stata documentata negli archivi militari di Parigi (Kaiser, 2015).Monique non voleva essere lì ed anni dopo ricorderà le lacrime che versò quando fu obbligata a mettere quell’abito blu come il mare e rosso come il sangue e come prima di quella cerimonia lei il velo non l’avesse mai indossato. Si scoprirà infatti che fu obbligata dai militari francesi a denudarsi per salvare il suo fratellastro, imprigionato, torturato e con la scure dell’esecuzione che pendeva sul capo. “Denudati seguendo il copione e tuo fratello sarà salvo” questo era il comando dei coloni (Falęcka, 2018).

La figura di Lord Cromer

Una delle menti di questa viscida forma di colonialismo che mirava a soggiogare gli animi per dominare le terre fu il famigerato agente britannico e Console generale dell’Egitto dal 1883 al 1907 Lord Cromer, autore del testo di apologia coloniale Modern Egypt. Nel testo, Cromer sottolineava come la chiave principale per sottomettere i musulmani fosse la donna musulmana ed il simbolo chiave da eliminare fosse il velo perché ‘simbolo di oppressione’ (Cromer, 1908). A molti questa frase non sembrerà nuova, anzi.

Il motivo è proprio che fu Cromer ad iniziare questa falsa narrativa per giustificare la demonizzazione e la de-umanizzazione dei musulmani e dunque le conseguenti violenze fisiche e psicologiche coloniali. Ricordiamo che Cromer non era certo un campione di chissà quali diritti delle donne, egli divenne famoso in Inghilterra fra le altre cose proprio perché un oppositore del suffragio delle donne e per aver impedito alle donne egiziane di qualificarsi come dottoresse perché per lui le donne erano più adatte a fare le infermiere (Kaiser, 2015).

Il ruolo del femminismo

La stessa narrativa fu poi adottata dal femminismo, utilizzato dunque come arma dai colonialisti per continuare l’eredità di Cromer. La celebre autrice femminista Judith Butler, una delle principali intellettuali e teoriche dell’ideologia gender e del femminismo moderno, parla nel suo libro Gender Trouble di come vi sia un forte problema con questa narrativa. L’idea che esista una base universale ed universalizzante per il femminismo e che questa debba essere giustificabile allo stesso modo in tutte le culture è stata accompagnata dall’idea che le istanze di oppressione delle donne siano omogenee, totalizzanti, e fondate sulla cultura relativa e limitata dell’Occidente.

Butler sottolinea la pericolosità di questo pensiero ricordando che questa narrativa non tiene conto dell’individualità delle donne in diversi contesti culturali (o ideologici) e della percezione che le stesse donne hanno di sé (ad esempio in relazione al velo). Il risultato è che questa forma di femminismo divenne uno strumento per colonizzare culture non-occidentali usando nozioni molto delimitate e limitate di oppressione e basate sulla cultura occidentale. È questo che poi contribuisce a giustificare, dice Butler, concetti stereotipanti e di alterità come “il terzo mondo” o “l’Oriente” contrapponendo i paesi non occidentali all’Occidente e dipingendoli come luoghi in cui l’oppressione di genere è sintomatica ed è addirittura definita come un’intrinseca barbaria non-occidentale (Butler, 1990:4). 

Si racconta che Cromer e la sua non-curanza per i diritti delle donne, come visto sopra, si rifletté anche nella sua visione sul velo. Cromer non voleva denudare le donne musulmane per “liberarle” ma per soddisfare la sua perversione voyeuristica. Questa storia non è improbabile visti altri fatti storici che oggi conosciamo. La perversa fantasia orientalista dell’harem infatti è all’origine del voyeurismo occidentale nei confronti delle donne musulmane. Questa narrativa trova origini nelle più becere delle polemiche anti-Islam sviluppate nel medioevo e che in era coloniale, come un’arma conservata e pronta all’uso, fu riesumata ed utilizzata per giustificare nuove demonizzazioni, nuove conquiste e nuovo sangue (Bullock, 2002:20).

Il velo divenne dunque per il colonizzatore una barriera privatizzante che gli vietava di realizzare la propria fantasia perversa. Il velo diveniva un’estensione dello spazio privato delle donne che vietava all’occhio del conquistatore maschio di entrare in quello spazio per realizzare l’adulterio dell’occhio e dunque quello stupro (mentale) che nei secoli ha rappresentato uno dei più tristi simboli del saccheggio di un esercito vincitore nei confronti del vinto.

Le parole di Frantz Fanon in Algeria Svelata riassumono con forza la perversione coloniale e la funzione del velo come scudo contro tale perversione 

Ogni velo rifiutato svelava agli occhi colonialisti orizzonti fino ad allora proibiti, e rivelava loro, pezzo per pezzo, la carne dell’Algeria messa a nudo. L’aggressività dell’occupante, e quindi le sue speranze, si moltiplicavano di dieci volte ogni volta che veniva scoperto un nuovo volto. Ogni nuova donna algerina svelata annunciava all’occupante una società algerina i cui sistemi di difesa erano in procinto di dislocazione, aperti e violati. Ogni velo che cadeva, ogni corpo che si liberava dall’abbraccio tradizionale dell’haik, ogni volto che si offriva allo sguardo audace e impaziente dell’occupante, era un’espressione negativa del fatto che l’Algeria stava iniziando a negare sé stessa e accettava lo stupro del colonizzatore. La società algerina con ogni velo abbandonato sembrava esprimere la sua volontà di frequentare la scuola del padrone e di decidere di cambiare le sue abitudini sotto la direzione e il patrocinio dell’occupante. (Fanon, 1965:47)

Ancor più emblematico diviene dunque quel famoso verso coranico che raccomanda il velo alle donne “per non essere molestate” (Corano 33:59), un eco che dal deserto dell’Arabia di un millennio e mezzo fa tuona oggi più forte che mai. Certo, il comando Divino non è unilaterale, all’uomo e alla donna si raccomanda ugualmente la pudicizia e di “abbassare il loro sguardo e di essere casti” (Corano 24:30), concetto quello della castità che in una società iper-sessualizzata qual è la nostra ha perso ogni significato. Ricordiamo allora questo nobile concetto e definiamolo in linea con la nostra discussione: essa rappresenta fondamentalmente quella linea che divide il pubblico dal privato quando si parla di relazione ed interazione con il sesso opposto.

Tante musulmane e musulmani di spicco hanno discusso delle implicazioni del velo oggigiorno e dell’impatto psicologico, emotivo, politico e sociale che esso ha per le donne musulmane che lo indossano. C’è una costante però in tutte queste discussioni: il tenace attaccamento alla fede e alla pratica religiosa, incluso il velo. La società odierna ha abbandonato molti degli ideali di etica e morale che hanno fatto della civiltà umana una civiltà appunto. Dove lo scopo dell’essere umano era in passato la ricerca della verità ed il miglioramento di sé, oggi è invece la ricerca del profitto e il miglioramento della situazione economica ad ogni costo. Questi sono due scopi ben diversi e le vie per raggiungere una o l’altra destinazione sono opposte.

Prendiamo ad esempio il sesso e la sessualità. L’Islam li considera sacri (incluso il piacere fisico ad essi legati), mentre oggi il loro valore è limitato alla componente morbosamente edonistica. Del resto, si sa che “il sesso” vende ed una società che sdogana la sessualità e promuove la nudità è una società che può vendere di più e dunque può meglio realizzare l’obiettivo di profitto ed edonismo che si è posta come raison d’etre

L’Islam è oggi l’unica religione che in toto offre una reale alternativa, nonostante le sue sfide interne dovute anche alle difficoltà storiche a cui la disgregazione dell’impero ottomano ha portato e agli effetti ancora perduranti del colonialismo (Malik, 2019). Molti cristiani hanno fatto del famoso verso biblico “date a Cesare quel che è di Cesare” un mantra il cui effetto è stato la totale separazione fra spiritualità e il mondano (politica, economia ecc.).

l’Islam offre un sistema comprensivo, una teologia forte (quella del puro monoteismo) ed intuitiva ed una rivendicazione della verità prorompente. Il cristianesimo, salvo alcune eccezioni, ha reso della spiritualità un oppio utile a dimenticare la paura della morte e soffocare il rischio di nichilismo. L’ebraismo stesso ha perso nel corso dei secoli la sua componente proselitistica. Quella che in Esodo doveva essere “una nazioni di sacerdoti” (Esodo 19:6) è divenuta oggi per molti ebrei più un’identità etnica e nazionalistica. Certo le eccezioni ci sono ma restano quelle, eccezioni.

Solo l’Islam può offrire oggi un’universale giustificazione oggettiva, assiomatica e metafisica per la morale, per valorizzare la famiglia, la comunità, la verità, la giustizia. Il motivo è semplice: l’Islam punta a realizzare questi valori considerandoli veri a prescindere dall’opinione della maggioranza, a prescindere dai tempi e dalle culture e a prescindere dal fatto che per realizzare questi ideali l’edonismo e la ricchezza debbano essere sacrificate durante il cammino. 

In questo quadro il velo è un simbolo importante, i detrattori dell’Islam e i nuovi colonizzatori l’hanno ben capito, i musulmani un po’ meno.

Il velo ha la grande forza di filtrare le contraddizioni che rappresentano i punti deboli della società occidentale. Femminismo, liberalismo e libertà di espressione si vedono costretti ad auto-fagocitarsi pur di soffocare il simbolo del velo al fine di mantenere lo status-quo e mantenere vivi i pilastri di profitto, relativismo, consumo ed edonismo su cui lo stesso status-quo si erge.

“Il velo è oppressione”, questo è lo slogan di chi vuole eliminare lo scudo che fa da barriera alla totale pubblicizzazione dell’individuo. Gli Stati arbitrariamente dettano con le leggi i limiti di quanto ci si possa coprire e quanto no, decidendo dunque il limite oltre il quale “l’ordine pubblico” viene disturbato e la violenza statale, sotto forma di sanzioni o altro, sia dunque giustificata. Inutile sottolineare come chi canta le lodi di questo sistema al grido di slogan come “mi vesto (o svesto) come voglio” deve fare i conti con uno Stato che nega tale aspirazione. Relitto, questa negazione, basato su quella tradizione spirituale religiosa che gli ultimi due millenni hanno lasciato in eredità al mondo di oggi.

C’è solo un modo in cui la società secolar-liberale possa continuare ad esistere secondo le sue stesse premesse: il momento in cui la maggioranza deciderà di abbandonare l’abito in toto gli Stati dovranno essere pronti a dire di sì ed abbandonare il simbolo ultimo di civilizzazione (l’abito), o dire di no e crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. 

Il velo diviene dunque il punto ed il metro ultimo, assiomatico, metafisico e fisico oltre al quale passo per passo una parte di ciò che fa dell’essere umano un essere speciale, concetto quest’ultimo ben elaborato dai pensatori dell’eccezionalismo umano, inizia a perdersi sotto forma di denudamento. Il Corano insegna con maestà questa lezione partendo dalla genesi per antonomasia. Quella genesi che vedeva l’umano prima della caduta nella sua forma più alta come detentore di tre doni divini: la parola, l’immortalità e l’abito: 

O figli di Adamo, facemmo scendere su di voi un abito che nascondesse la vostra vergogna e per ornarvi, ma l’abito del timor d’Iddio è il migliore. Questo è uno dei segni d’Iddio, affinché se ne ricordino!

O Figli di Adamo, non lasciatevi tentare da Satana, come quando fece uscire dal Paradiso i vostri genitori, strappando loro le vesti per palesare la loro vergogna. Egli e i suoi alleati vi vedono da dove voi non li vedete. A coloro che non credono abbiamo assegnato i diavoli per alleati.

Quando commettono qualcosa di turpe, dicono: “Così facevano i nostri avi, è Iddio che ce lo ha ordinato”. Di’: “Iddio non comanda la turpitudine. Direte, contro Iddio, ciò che non conoscete?”.

Di’ (oh Muhammad): “Il mio Signore ha ordinato l’equità, di rivolgervi a Lui in ogni luogo di preghiera, di invocarLo e di attribuirGli un culto puro. Ritornerete [a Lui] così come vi ha creati” (Corano 7:26-29).

Riferimenti bibliografici: