Helgoland: nel nuovo libro di Carlo Rovelli la Scienza diventa Fede

Helgoland è il titolo di un bel saggio, un libro di divulgazione scientifica scritto da Carlo Rovelli, importante scienziato e ottimo divulgatore, edito da Adelphi, libro che soprattutto per chi, come chi scrive, uso un eufemismo, non è molto addentro ai misteri del mondo subatomico, vale senz’altro, come suole dirsi, il prezzo del biglietto.

Helgoland oltre ad essere il titolo di questo tascabile Adelphi, prestigiosa casa editrice italiana, che profuma vagamente di massoneria ed esoterismo, ma i cui meriti nel panorama culturale del nostro paese sono innegabili, è anche il nome di un’isola del mar Baltico, desolata e battuta dal vento, quasi del tutto priva di vegetazione, dove circa un centinaio di anni fa un giovane fisico tedesco baciato dal genio, -aveva all’epoca solo ventitré anni- di nome Werner Heisenberg, approdatovi, come ci racconta Rovelli, per trovar pace e ispirazione, e sollievo da una fastidiosa rinite allergica, ripensò alla struttura del mondo e della realtà come nessuno prima di lui era riuscito a fare.

La struttura intima del mondo, che fino agli inizi del ventesimo secolo si pensava perfettamente spiegata dagli assiomi e dalle equazioni della fisica classica, per intenderci da quella di Newton e Galilei, fu rivoluzionata dalla teoria della relatività di Einstein e dalla fisica quantistica.

Strana teoria quella dei quanti, e ancor più strano è il mondo quantistico, mondo che non è come molti credono limitato alla dimensione atomica, all’infinitamente piccolo; ma, ci spiega Rovelli, anche il macro-mondo, il mondo e la dimensione nella quale abitiamo e agiamo, è quantistico. Grazie ai quanti funzionano quasi tutte le invenzioni moderne, tra cui, tanto per fare qualche esempio, il computer sul quale scriviamo, i telefonini che tetanizzano l’attenzione di molti, troppi ragazzi, la televisione, i treni a lievitazione magnetica e mille altre cose, tra cui purtroppo, anche tutto l’infernale apparato di bombe atomiche e ai neutroni che, anche a guerra fredda caduta da decenni nel dimenticatoio, costituiscono ancora una minaccia permanente alla sopravvivenza dell’umanità.

Un universo il nostro, se letto in chiave quantistica, abitato da sovrapposizioni e da paradossi; sovrapposizioni e paradossi come quello della scatola che racchiude il gatto di Erwin Schrödinger, altro enfant prodige della fisica del novecento, un gatto che può essere contemporaneamente, secondo Rovelli, che ama i gatti, sveglio o addormentato, o secondo Schrödinger, che evidentemente i gatti amava meno, vivo o morto; a seconda che la boccetta del sonnifero/veleno sia rimasta chiusa o si sia aperta. Così come avviene per il gatto di Schrödinger, anche lo stesso elettrone può essere in diversi punti contemporaneamente, può anch’esso essere in uno stato di sovrapposizione quantistica.

La nuova scienza dei quanti afferma con forza l’importanza dell’osservazione, e ancora di più dell’osservatore, parte anch’esso del sistema, perché la realtà tutta non è un insieme di monadi e di entità chiuse in sé stesse ed autosufficienti, ma è un infinito intreccio, una rete di relazioni.

È tutta la nostra visione del mondo, tutto il nostro presunto realismo, che la fisica quantistica mette in discussione. Essa sfida la nostra visione del mondo in senso lato, in senso filosofico, cioè in quell’insieme di pensieri e di concetti che i tedeschi chiamano Weltanschauung, ma è anche la nostra esperienza del mondo, così come crediamo di conoscerlo, questa cara consuetudine, così banalmente semplice e rassicurante, che ci accompagna da sempre, che i quanti scuotono dalle fondamenta.

La teoria dei quanti, soprattutto in alcune sue versioni, ha raggiunto livelli in cui difficilmente possiamo addentrarci senza provare un senso di vertigine e di smarrimento. C’è chi infatti è stato capace di immaginare il multi-mondo, una dimensione cioè in cui ciascuno di noi può essere contemporaneamente in diversi stati: sveglio o addormentato, allegro o triste, vivo o morto e via dicendo. Pura fantasmagoria mentale, dalla quale sarebbe meglio allontanarsi, così come lo stesso Rovelli suggerisce.

Se guardiamo la lama di un coltello, o la superficie di marmo del tavolo in cucina, esse ci appaiono perfettamente lisce, perfettamente uniformi, perfettamente immobili; esattamente come ci apparirebbe il mare se lo osservassimo da migliaia di chilometri di altezza. Ma il mare, se osservato dalla spiaggia anche in un giorno di bonaccia, è acqua in perenne movimento; è un susseguirsi di increspature, di sciabordii, di onde che si infrangono ritmicamente sulla battigia. Se poi lo osserviamo in certe giornate di libeccio o di maestrale, le sue onde, enormi e spumeggianti, si abbattono con forza, con furore, sulla spiaggia, e lo spettacolo è magnifico e inebriante, ma l’ultima idea che ci può venire in mente osservandolo è quella dell’immobilità.

Così pare che sia anche la superficie del nostro tavolo di marmo o della lama del coltello: immobili e perfettamente lisci in apparenza, ma se osservati da un punto di osservazione infinitamente ravvicinato, il nostro tavolo e la nostra lama diventano furore e tempesta; un’infinità di particelle subatomiche in perenne movimento, un’increspatura infinita. La nostra è una percezione limitata, una visione del mondo solo macroscopica. La realtà non è come ci appare (Raffaello Cortina Editore), così Rovelli felicemente titolava un suo precedente lavoro divulgativo.

Il maggior merito di questo agile saggio, è la capacità di introdurre con semplicità il lettore non specialista in cose che, anche se parliamo di scienza, appaiono ai più un po’ arcane e misteriose. Pur affrontando una materia tutt’altro che facile, con molta chiarezza, con un’umiltà che gli fa onore, ci dice Rovelli che, “… più che spiegare come capire la meccanica quantistica, forse spiego solo perché è così difficile capirla…”

Rovelli però, con la sua raffinata eleganza intellettuale e con la solidità del suo lavoro, appartiene a pieno titolo al nostro tempo, alla nostra era, al nostro ineludibile Zeitgeist; appartiene cioè a un’era e a un tempo dominati dalla scienza e, laddove quest’ultima si coniuga con l’industria, dalla tecnologia. Un’epoca in cui la scienza è andata oltre alla dimensione che le era propria, quella di indagine spassionata e appassionata della materia e del mondo sensibile e misurabile quantitativamente, per diventare di fatto, come ha affermato il filosofo Giorgio Agamben, una nuova religione portatrice dell’unica verità possibile, quella scientifica appunto.

Religione con i suoi riti e i suoi sacerdoti, con la sua ortodossia e con le sue eresie; religione alla quale l’autore di Helgoland appartiene a pieno titolo, in un ruolo tutt’altro che piccino e defilato, con appuntati al petto i gradi virtuali di sacerdote del culto.

Ragione per cui l’autore, dopo averci spiegato che i quanti hanno una dimensione granulare, e che quello che vediamo liscio e continuo, in realtà non lo è, passa oltre sostenendo che al di là dei quanti e del mondo dell’infinitamente piccolo, nient’altro esiste. Fede, appunto; la Scienza con la s maiuscola, diventa fede; fede che oltre al mondo della materia, poiché null’altro è osservabile, null’altro esista.

Nulla di sostanzialmente diverso da quello che il primo astronauta sovietico lanciato nello spazio, Yuri Gagarin, nel lontano 1961, dichiarò una volta rientrato sulla terra: che angeli in cielo, lui non ne aveva visti.