L’antropologia dei non istruiti che non cedono al terrore del Covid

“La gente non ha più paura di morire!”: la strana formula di rimprovero con cui Zaia ha bacchettato la folla di persone in strada e in fila nei negozi, che il governo stesso ha riaperto per far risalire il PIL e decrescere il malcontento. Davvero uno strano rimprovero perché, se fosse aderente al vero, la frase di Zaia avrebbe descritto la migliore e la più forte delle civiltà.

Insomma un elogio piuttosto che una critica. Un popolo libero dalla paura della morte sarebbe fieramente invincibile e maturo. E se si pensa all’esordio della lega, segnato da un’altra sentenza, la bossiana: “io ce l’ho duro!” verrebbe da pensare che il superuomo davvero esiste e abita in terra padana…Purtroppo o per fortuna non è così.

Semplicemente accade che una parte della popolazione non ha la percezione di un rischio davvero mortale e allo stesso tempo si sente soffocare, non ce la fa davvero più a vivere come un solipsistico animale produttivo e riproduttivo. E questo sì che rappresenta un segno di salute civile, nonostante tutto. Non lo shopping o la famigerata movida, ma la semplicità con cui molte persone assecondano le libertà man mano concesse e la reazione a una comunicazione quotidiana, spesso grossolana e volta alla pornografia del terrore.

Bisogna esser chiari: ormai un numero significativo della popolazione ha avuto direttamente o indirettamente esperienza del virus e dei suoi effetti.

C’è chi ha perso una persona cara, chi ha vissuto il travaglio di una malattia, sua o di chi gli sta accanto, c’è chi semplicemente è stato in isolamento per un periodo abbastanza lungo.

Ciò detto, c’è un unico aspetto oggettivamente drammatico: non la morte in sé ma come si muore. In brutale solitudine, senza alcuna dignità.

E tra una fossa comune e una corsia al neon tra macchine e operai della salute senza un volto amico, non c’è davvero differenza alcuna. 

In un tale scenario resta comunque un’altra prospettiva interessante: lo scarto tra l’esperienza soggettiva e diretta da una parte, e quella oggettiva e mediata dall’altra. Disinformati contro informati, ignoranti contro istruiti, per semplificare.

Gli istruiti tendono a seguire all’unanimità o quasi le istruzioni del politicamente corretto, quello che la stampa e la cultura ufficiale dettano tra le pieghe del loro libretto digitale. Seduti sui loro divani leggono e ascoltano quello che i filosofi, i sociologi e gli psicologi del momento sostengono, mandando avanti un teatrino dialettico che si avvicina sempre più ai ritmi e ai colori del circo.

Leggono il pensiero degli scrittori che opiniano sulle due principali testate nazionali; giusto per fare qualche nome: Saviano, D’Avenia, Paolo Giordano, insomma un ottimo consiglio di classe di una scuola primaria, di certo non l’opinione pubblica di un paese dignitoso.

La cronaca d’altronde è diventata narrativa dell’emoticon, un insieme di ideogrammi di un nuovo alfabeto basato sull’analogia delle emozioni.

Invece dall’altra parte della cultura, quella scritta in minuscolo, c’è l’antropologia dei non istruiti, i cosiddetti ignoranti, che diffidano degli istruiti, si affidano ai social col rischio di cedere a facili echi complottisti e agitazioni umorali. Fino ad arrivare a sostenere (al supermercato l’ho sentito spesso) che è tutta colpa della lobby delle mascherine! Ora, a meno che tale lobby non appartenga a un eventuale re del mondo, sarebbe un po’ irrazionale che tale lobby abbia finito col prevalere su tutte le altre, penalizzate invece dal ristagno economico. Costoro però hanno ancora un grande vantaggio: non si informano. 

Rispetto al classico cittadino benpensante, ancora convinto che la scuola, la democrazia, la stampa e la cultura incarnino l’evoluzione umana (cresciuti al riparo del PD), costoro si affidano a un luogo empirico sempre più in disuso: la strada.

Rancorosi contro i politici: tutti corrotti; gli intellettuali: segaioli viziati e inutili; i giornalisti: servi del potere e in malafede! La strada infatti è uno dei pochi luoghi ancora sottratti alla mediazione (televisiva e digitale).

Il posto dove le cose si vedono, si toccano, si registrano e allora sì che davvero esistono! Altrimenti è tutto una menzogna, una finzione dei potenti.

Tra loro ci sono commercianti, ristoratori, tassisti e tutta la costellazione del sommerso in nero, giusto per citarne alcuni. E poi ci sono, anzi c’erano, la gioventù, i perditempo e i passeggiatori impenitenti. 

Il problema è che da quasi un anno, le strade sono state ripulite e anche loro sono stati costretti a rifugiarsi tra le mura di casa, dove poco a poco i loro occhi hanno sentito il bisogno di vedere qualcosa e man mano i loro sguardi saranno sempre più preda del solo mondo della mediazione. 

E se un giorno ci salvasse l’ignoranza? L’unico luogo della società della conoscenza in cui risiede la cultura antropologica e non quella degli istruiti.