A cent’anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia cos’è rimasto?

Il 20 gennaio del 1921, a Livorno, si tenne il diciassettesimo congresso del Partito Socialista Italiano. Dopo giorni di scontri dialettici duri e intensi fra le tre frazioni che lo costituivano, si giunse alla votazione finale. Votazione che diede questi risultati: 98.028 voti alla frazione cosiddetta massimalista; 58.783 a quella comunista; 14.695 a quella riformista. 

La mattina seguente, il 21 gennaio del 1921, la frazione comunista, rispondendo all’appello dell’internazionale comunista di Lenin che chiedeva la rottura con i riformisti, abbandonò il teatro Goldoni, sede di quel congresso, e riunendosi in un’altra sala livornese, il teatro San Marco, fondò il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana della terza internazionale comunista. 

Fu eletto un comitato centrale di quindici membri nel quale entrarono fra gli altri Bordiga, Grieco, Gramsci, Terracini, Bombacci, Misiano e Fortichiari, e un comitato esecutivo cui spettò la direzione effettiva del partito che fu composto da Bordiga, Terracini, Grieco, Repossi e Fortichiari. Amedeo Bordiga, un intransigente giovane ingegnere napoletano, anche senza ricevere un’investitura formale, divenne il capo riconosciuto del partito. 

Relativamente alla storia del movimento operaio e agli avvenimenti che ne segnarono il passaggio fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il partito comunista d’Italia nacque tardi. Nacque anni dopo che a livello internazionale la frattura fra socialdemocratici e comunisti si era consumata, giungendo al suo apogeo nell’agosto del 1914 quando lo scoppio del primo conflitto mondiale vide svanire come neve al sole la solidarietà internazionale dei partiti che volevano rappresentare i lavoratori e molti esponenti socialdemocratici europei si dichiararono favorevoli all’intervento in guerra. 

Il partito Bolscevico (comunista) di Lenin e di Trotsky, nell’ottobre del 1917, prese il potere in Russia con un’operazione che più che a una rivoluzione assomigliava a un colpo di Stato, fondando un impero rosso, geograficamente immenso, che avrebbe preso il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e al quale avrebbero fatto riferimento e dal quale avrebbero tratto ispirazione, fino alla sua dissoluzione avvenuta nel 1991, tutti i movimenti comunisti del mondo, riuniti nella terza internazionale, di fatto un partito comunista mondiale, di cui il partito fondato a Livorno si proclamò sezione italiana. 

Le vicende dei primi anni della storia del partito italiano corsero parallele a quelle del partito sovietico. In Russia Stalin, subentrato dopo la sua morte a Lenin, e alleandosi alternativamente con la destra e con la sinistra del partito, mise prima ai margini e poi, nel 1940 in Messico, avrebbe eliminato anche fisicamente Leone Trotsky, che con Lenin era stato il principale artefice della rivoluzione dell’ottobre del 17. 

Nel partito italiano, dopo il III congresso tenuto nel gennaio del 1926 clandestinamente a Lione, il gruppo che faceva riferimento a Gramsci, mise prima in minoranza, poi emarginò, e nel 1930 espulse Amedeo Bordiga e la sinistra che aveva in lui il principale punto di riferimento. Antonio Gramsci, un marxista non precisamente ortodosso, il cui pensiero e la cui formazione devono molto allo storicismo e all’idealismo di Croce, finì in carcere nel novembre di quell’anno, carcere da dove sarebbe uscito per amnistia solo nel 37 poco prima di morire, e durante quegli anni si trovò anch’egli completamente emarginato, mentre il vero capo del partito divenne Palmiro Togliatti

In Russia Stalin eliminò prima politicamente e poi, negli anni trenta coi processi di Mosca anche fisicamente, praticamente tutta la generazione dei dirigenti bolscevichi che aveva fatto la rivoluzione.  In Italia, Palmiro Togliatti, che nel frattempo era diventato il fiduciario e uno zelante esecutore delle politiche decise a Mosca, dopo Bordiga, espulse dal partito Angelo Tasca, il principale esponente della corrente cosiddetta di destra del partito. 

I dissidenti o i non ortodossi all’interno del partito italiano furono neutralizzati politicamente, e poiché il partito comunista non si poteva identificare in Italia col potere dello Stato, evitarono la morte. Perlomeno, la evitarono tutti coloro che non ebbero l’infelice idea di emigrare in Russia, perché là, nella cosiddetta patria del socialismo, varie centinaia di fuoriusciti italiani antifascisti: comunisti, socialisti e anarchici, si persero nei gulag costruiti dal regime staliniano, e dalla Russia non sarebbero più tornati.  

Più o meno nello stesso periodo storico le condanne a morte comminate dal tribunale speciale fascista, che operò dal 1926 al 1943, furono in tutto 42, di cui 31 eseguite. 

Incalcolabile è invece il numero di coloro che persero la vita durante gli anni della dittatura comunista in Russia e in quei paesi che dopo la seconda guerra mondiale finirono nella sfera di influenza sovietica.

Il comunismo, in Italia come ovunque nel mondo, è stato per lunghi decenni, per una fase storica che comprende quasi tutto il ventesimo secolo, una religione atea; esso fu un vero e proprio culto per il quale milioni di esseri umani sacrificarono la loro giovinezza, le loro migliori energie e molto spesso anche la vita. Cosa ne resta oggi? 

In Italia resta qualche piccola formazione politica che si proclama comunista, politicamente irrilevante, il cui mantra, di fronte alle innegabili macerie del passato, è che quel socialismo non fu vero socialismo, quel comunismo non vero comunismo, ma qualcos’altro non ben definibile, e che la vera rivoluzione comunista, la vera catarsi sociale, sarebbe ancora in gestazione.

Invece il gruppo storico dei dirigenti comunisti del vecchio P.C.I dopo l’ottantanove si è dissolto e riciclato nelle vicende politiche della seconda repubblica; qualcuno di loro con ottimi risultati. Giorgio Napolitano, ardente difensore dei carri armati sovietici intervenuti per reprimere l’insurrezione anticomunista in Ungheria del 56, è stato presidente della Repubblica per ben due mandati. 

Altri hanno dato vita, insieme ai resti della sinistra democristiana, all’attuale Partito Democratico e qualcuno di loro ha perfino sostenuto di non essere mai stato comunista. L’imponente, rigido ed ingombrante armamentario ideologico di un tempo si è dissolto per lasciar spazio a una visione molto liquida dei principi e della pratica politica, dove la classe di riferimento non è più quella operaia, ma un ceto abbastanza indistinto il cui asse portante è costituito in gran parte da insegnanti e impiegati ministeriali; e il vecchio moralismo stalinista, che aveva emarginato Pier Paolo Pasolini in quanto omosessuale, ha lasciato posto ad un’ideologia arcobaleno, molto pro gay e molto politicamente corretta.

A livello internazionale oltre al luminoso esempio della Corea di Kim Jong-un, che piaceva tanto al senatore Razzi, a Cuba e al Vietnam, si richiama ancora agli ideali comunisti il grande moloch statale cinese, diretto da un partito ancora formalmente comunista, ma che dell’armamentario ideologico marxista nulla ha conservato, se non il rigido controllo del partito su un apparato statale gigantesco e oppressivo, mille miglia lontano da quella dissoluzione dello Stato che nella visione classica marxista sarebbe dovuta sopraggiungere dopo l’avvenuta estinzione delle classi sociali.

Le classi sociali ci sono ancora tutte e nessuna cuoca, contrariamente a quanto aveva profetizzato suggestivamente Lenin nel suo testo fondamentale Stato e rivoluzione, ha mai potuto dirigere lo Stato.