Il silenzio dei media israeliani sull’espulsione dei palestinesi

Carta stampata e media online stanno appoggiando il progetto di ammassare i palestinesi in riserve modello Bantustan per annettere la maggior parte della Cisgiordania e dare la possibilità agli ebrei di beneficiare di terreni e immobili a buon mercato

Quali giornali di New York raccontarono che il 26 maggio del 1838, circa 7.000 soldati statunitensi avevano dato inizio all’espulsione di migliaia di indiani della nazione Cherokee dalle loro terre, così come stabiliva il Native American Removal Act firmato dal president Andrew Jackson? 

Che resoconto diedero i giornali a Johannesburg il 10 febbraio del 1955, il giorno dopo l’espulsione messa in atto da 2.000 poliziotti armati delle famiglie dei neri sudafricani dalle loro case nel villaggio di Sophiatown? Quanti furono soddisfatti dall’apprendere che l’espulsione era prevista dal documento chiamato Group Area Act?

Lasciamo queste indagini ad altri, e facciamo un’altra domanda: quanti e quali media israeliani in lingua ebraica hanno riportato la scorsa settimana che l’Amministrazione Civile ha chiesto che i membri della comunità Khirbet Humsa nel nord della valle del Giordano se ne vadano “volontariamente” dalla zona dove hanno vissuto per decenni- e quindi ha demolito e confiscato le loro capanne, i loro ovili e quanto possedevano? La risposta è facile: la rivista online Siha Mekomit (“sorella” in lingua ebraica di quella in inglese 972 site) e Haaretz.

I media israeliani fanno a gara nel raccontare di scandali palestinesi, di palestinesi armati prima e dopo il loro arresto, e di varchi nel muro di separazione che permettono alle persone di cercarsi da vivere nell’altra parte. Ma in questa occasione hanno mantenuto il silenzio. Esattamente come rimangono in silenzio di fronte ai crudeli divieti di costruzione e sviluppo che Israele impone ai palestinesi, e di fronte alle frequenti operazioni di demolizione e confisca che promuove contro di loro. 

A differenza che in passato, oggi  c’è WhatsApp, c’è internet e vi sono i droni, che aiutano a raccontare quanto accade in tempo reale. I giornalisti israeliani non devono temere persecuzione e arresto come i loro colleghi russi e cinesi, o come succedeva nel Sud Africa razzista. Ma i media in lingua ebraica restano in silenzio perché molto volentieri accettano la menzogna ufficiale, che operazioni come quella di Khirbet Humsa sono legittimi atti di forza. Con questo silenzio si vuole normalizzare la lenta espulsione che le Forze Armate Israeliane, l’Amministrazione Civile e il Ministero dell’Interno stanno operando contro i palestinesi. 

In questi casi, i media supportano il piano generale del governo israeliano: ammassare I palestinesi in Bantustans, in modo che la maggior parte della Cisgiordania sia annessa ad Israele e che gli ebrei possano beneficiare di terreni ed immobili a buon mercato. Questo silenzio è frutto di vigliaccheria, di volontaria collaborazione con i crimini, e per i profitti materiali che questi producono.

Le esercitazioni militari tenute dalle Forze Armate sulla terra appartenente ai villaggi di Jinba, Mirkez, Bir Al-Eid e Tawamin fanno parte del piano generale per uno “spazio aperto,” così come affermato dal Consiglio Regionale per gli Insediamenti, che ha come scopo “uno spazio senza arabi.” Anche in questa occasione i giornalisti israeliani sono stati tranquilli.

È vero che ci sono importanti differenze fra questa espulsione e le altre espulsioni che abbiamo citato prima. Gli atti criminali che furono perpetrati negli Stati Uniti, furono commessi prima che le convenzioni internazionali stabilissero quello che oggi è di per sé evidente: che espulsione, colonizzazione e apartheid sono crimini. L’African National Congress e l’International Solidarity Movement non permisero che i crimini di Pretoria fossero dimenticati. 

A differenza di Jackson e i primi ministri afrikaner Daniel Malan, Hans Strijdom e Hendrik Verwoeed, i governi israeliani di Benjamin Netanyahu e dei suoi predecessori, inclusi Shimon Peres e Yitzhak Rabin, hanno portato avanti le espulsioni poco alla volta dal 1967 (non con espulsioni di massa come nel 1948-1952). Né Haaretz e né Siha Mekomit riportano ogni demolizione di casa palestinese. 

L’espulsione israeliana odierna non è sanguinosa come furono le campagne di sradicamento delle popolazioni native negli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, o condotta apertamente come successe a Johannesburg, ma è efficace. Il numero di palestinesi che vive nelle comunità della valle del Giordano e nei villaggi di Masafer Yatta (un insieme di villaggi palestinesi nella Cisgiordania sud-orientale) è piccolo se paragonato al tasso naturale di crescita della popolazione e al potenziale agricolo della loro terra. Non molta gente è capace di vivere costantemente con lo spettro degli ordini di demolizione o può tollerare la permanente caccia israeliana ad ogni ovile che è costruito, e a ogni rubinetto per l’acqua e a ogni pannello solare installati.

Lo grideremo ancora una volta: il trasferimento strisciante nei Bantustans è stato ed è reso possibile assegnando aree alle esercitazioni militari a fuoco, confiscando proprietà, costruendo insediamenti sulla terra dei palestinesi che si trovavano all’estero nel 1967, vietando la costruzione ai palestinesi, demolendo con frequenza le loro case, e con la crescente violenza degli avamposti ebraici in tutta evidenza illegali, che ricevono finanziamenti ufficiali e semi-ufficiali allo scopo di radicare, di espandersi e di espellere. E sono benedetti dall’opinione pubblica israeliana, le cui reazioni vanno dall’indifferenza all’accettazione entusiastica. Nulla si crea nell’isolamento. Ogni cosa è collegata a un’altra, e coloro che sono coinvolti sono partner palesi o occulti di un crimine in atto di sradicamento forzato.

Ricordiamolo ancora una volta: usando camion, baionette e cose simili, grandi espulsioni sono state eseguite nel 1985, nella metà degli anni 90 e nel 99, contro più di una dozzina di villaggi e di comunità. La resilienza delle comunità beduine e dei villaggi palestinesi, insieme ad organizzazioni per i diritti umani, ad avvocati israeliani e ad attivisti di sinistra, ha sabotato il piano per il loro sradicamento completo e le persone sono ritornate sulle terre dove avevano vissuto per generazioni, quantunque alle famiglie di Susya non sia stato permesso di ritornare nel luogo originario del loro villaggio.

I giudici dell’Alta Corte, e anche su questo ho scritto più volte, dovrebbero decidere quest’anno fra il far giustizia o accondiscendere alla richiesta della lobby immobiliare ebraica affinché migliaia di palestinesi di Masafer Yatta siano ammassati a Yatta. In altre parole, devono decidere se i palestinesi abbiano il diritto di rimanere nella loro terra, di sviluppare i loro villaggi e ed essere collegati a delle infrastrutture, o debbano essere forzati ad abbandonare il loro modo di vivere e il loro sostentamento. 

Questo è un appello ai paesi che sono impegnati nel diritto internazionale: non aspettate la Corte Criminale dell’Aia. Usate il vostro potere per impedire che i palestinesi siano rinchiusi in Bantustans, anche se i giudici ebrei lo approvassero. 

Articolo di Amira Hass pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz