Fedez e il DDL Zan: senza discriminazione c’è appiattimento e liquidità

Sarebbe bastato leggere: Fedez canta al primo maggio, per scrivere un breve saggio sul tramonto delle ideologie e la definitiva sparizione della Sinistra.

Ma si è andati oltre: Fedez arringa la platea con un virile discorso mancino in cui accusa l’asse del male, capitanata manco a dirlo da Salvini. Il bene e il male postmoderno: qualche partigiano ancora sopravissuto si pentirebbe forse delle sue azioni visti i figli partoriti dal mondo contemporaneo.

Ma si è andati anche oltre: sempre il suddetto influencer ha agitato le masse, rigorosamente sedute in DAD, invocando una censura di Stato. Da emblema dei lavoratori a leader della Sinistra fino ad ergersi paladino della libertà. Non c’è dubbio: l’Italia ha finalmente trovato un nuovo eroe! E in un certo senso è così.

Alla base di tutto c’è un Disegno di Legge, l’ormai celebre e molto discusso DDL Zan, atto a prevenire e sanzionare qualunque forma di discriminazione di genere. Se la parità di diritti è cosa giusta e fuor d’ogni discussione, alcuni dubbi sorgono. Innanzitutto pare un po’ avvilente delegare allo Stato anche il ruolo legale del padre che deve difendere ogni singolo cittadino da qualunque forma di insulto. Papà mi hanno chiamato frocio, lesbica, nero o handicappato. E lui lesto risponde: figlio mio, non preoccuparti. Li porto in tribunale questi agenti del male e risolviamo tutto. E davvero si risolve tutto? Non è che si finisce con l’ottenere il risultato contrario?

Ma il vero problema della questione ruota intorno al vero significato della discriminazione. 

Discriminare nella sua accezione violenta e superficiale sta ad indicare un comportamento vile e brutale mosso nei confronti di una minoranza, in fondo temuta come uno specchio disturbante. È stato così coglie ebrei, cogli omosessuali o con tutte le etnie o religioni ancora oggi osteggiate: rivelano un lato nascosto della maggioranza, impossibile da accettare e perciò facile da annientare. Questa è la faccia aberrante della discriminazione. Nel suo significato originario però discriminare indica un’azione volta a separare, discernere, fare una differenza. E l’attuale battaglia contro la discriminazione pare slittare verso questo primo significato, come una lotta in favore dell’indifferenziazione, della neutralizzazione o ancora meglio della mancanza di discernimento.  

Il vero problema del discriminare allora è il semplice persistere nel nominare. La sola esistenza di identità intorno a cui si coagulano gruppi e categorie ben definite e tra loro contrapposte è percepita come male. Ogni cosa deve scivolare, strisciare verso una pianura indiscriminata dove le singole cose diventano impossibili da distinguere, da discriminare. Musulmani, froci, ebrei o napoletani. Il solo nominarli, magari con un piccolo appellativo dovrà diventare reato con questa e altre leggi che verranno. Infatti non è un problema legato alla sola identità sessuale. Allo stesso modo è puerile invocare la discriminazione razziale quando allo stadio si sente cantare: Napoli colera e via dicendo…Da napoletano non posso ignorare che quei cori aumentano quando cresce la forza e il timore del bersaglio oltraggiato. Dovrei piangere e invocare l’aiuto dello Stato? Al contrario, l’offesa si trasforma in orgoglio di appartenere ad un gruppo così identificabile da esser irriducibile e quindi perturbante. Ad offendersi dovrebbero esser coloro dietro i quali non c’è l’ombra di alcun nome. 

L’abominio è a monte di tutto questo processo: osare ancora dare un nome agli individui per sottrarli a quella liquidità vischiosa in cui sessualità, fedi o etnie devono appianarsi senza batter ciglio. Non sia mai! Al massimo sia consentito un acronimo, una lettera da aggiungere alla brigata LGBTQ… Ma non è più offensivo esser chiamati così? Come una molecola uscita da un laboratorio chimico. È davvero meglio di frocio, ricchione e quant’altro? Di certo è più neutro, come l’intero tappeto benpensante su cui si sdraiano fieri, melensi e nauseabondi progressisti, piddini e transfughi di una sinistra, che non a caso non può più chiamarsi e definirsi tale da molto tempo ormai. Gli acronimi si sono erti come nuova Acropoli dietro cui arroccarsi e difendersi dalla paura di identificarsi. 

D’altronde di cosa ci meravigliamo? È il paradiso della democrazia che al suo apice si è accoppiato col paradiso della tecnica e del capitalismo. In cosa consiste un tal paradiso? Escludere l’umano, renderlo invalido nella scelta, intercambiabile, un corpo senza rilievo che si fa segno di poteri terzi quali la scienza, il progresso, il PIL, il numero e la tecnica; le reali divinità di un paradiso terrestre, così slavato e prosciugato da non poter esser neanche ribattezzato come inferno. E al centro di questo paradiso, bisogna farsene una ragione, oggi ci sono gli influencer che si illudono di influenzare la società e il mondo, eretti a leader dell’opinione, ma non lo sanno, non lo possono sapere che anche loro fanno parte di una superiore influenza, in mezzo alla quale restano come  semplice e passeggero raffreddore stagionale.

Uno starnuto nuovo, un fazzoletto intercambiabile e la sostituzione avrà luogo. La stessa sorte che toccherà anche a lui, al caro Fedez, che nel frattempo, all’apice della sua carica virale, chissà se preferirebbe esser insultato come coglione o nullità cerebrale oppure gradirebbe un acronimo per lui e i suoi compagni del web, tipo C.D.I.T.N.N. (cerebrolesi, disincarnati, instagramer, transitori, narcisi del nulla)?

Così, giusto per perdersi tra le pieghe di una neolingua molecolare che neutralizza qualunque rilievo ed escrescenza identitaria. Se fosse acuto dovrebbe preferire l’insulto che in fondo rivela la consapevolezza della loro forza d’impatto: e questo è il lato più triste di tutta questa faccenda.