La sentenza Europea sul hijab e la Convenzione sui Diritti Umani

Sta facendo scalpore le sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che stabilisce che i datori di lavoro possano vietare alle loro dipendenti l’uso dell’hijab quando si presentano determinate condizioni, la giurispudenza a livello europeo ha distinto due fattispecie diverse contraddicendo però un principio cardine stabilito dalla stessa Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

É necessario ricordare quindi come il diritto al lavoro e il divieto di discriminazione nell’ambiente di lavoro siano principi tutelati dall’ordinamento, sia italiano, nell’Art. 3 della Costituzione che stabilisce il principio di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzioni religiose; sia nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea nell’Art.21 che “vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla religione”.

Un’altra fonte importante è la Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU) che consente ad ogni individuo vittima di una violazione dei diritti umani in questa garantiti, di fare ricorso davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Ed un’altra fonte rilevante è la Direttiva 2000/78/CE che recita:

CORTE GIUST. UE – grande sez. – 14 Marzo 2017, causa C-157/15  –  L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva. 

Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.

Analizzando i suddetti articoli possiamo comprendere come si tuteli sia la persona, sia l’impresa con una concezione di neutralità aziendale legittima.

Per comprendere meglio i concetti possiamo prendere in considerazione esempi concreti, per esempio il caso di Asma Bougnaoui, lavoratrice ingegnere informatico, a cui è stato chiesto dal datore di lavoro di non portare il velo, abitualmente consentito nel luogo di lavoro, dopo che un cliente aveva manifestato una richiesta. A fronte di tale richiesta la donna si era rifiutata per poi essere licenziata. 

Dopo opportune valutazioni dalla Corte di Giustizia EU, emerge dalla vicenda siamo davanti ad una discriminazione diretta(viene trattata meno favorevolmente di  quanto sia stata o sarebbe stata trattata un’altra persona in una situazione analoga)  infatti il divieto imposto alla Bougnaoui era esclusivamente nei confronti della lavoratrice in quanto donna lavoratrice musulmana con il velo e quindi solo nei confronti di una persona di religione islamica.

Infatti, la Corte affermò che questa richiesta del cliente non può essere considerata come un fattore giustificativo del licenziamento imposto del datore di lavoro, perchè ciò avrebbe dato luogo a pregiudizi in grado di minare la libertà religiosa della lavoratrice in questione.

Di conseguenza portare o meno il velo non poteva pregiudicare lo svolgimento dell’attività lavorativa poiché le mansioni che l’interessata andava svolgere erano semplicemente di tipo tecnico informatico.

Un caso differente è quello invece di Samira Achbita, la donna svolgeva mansioni di receptionist specializzata in attività di accoglienza, questa ha da sempre voluto promuovere un’immagine neutrale verso i propri clienti, perché era imposta una regola al personale, che svolge mansioni a contatto con il pubblico, di non esporre alcun simbolo riguardante la religione, l’appartenenza politica o l’ideologia in generale. 

Questa regola non era stata formalizzata per iscritto, ma valeva per tutti i dipendenti.

Però poi divenne parte del regolamento aziendale dopo che la sig.ra Achbita iniziò ad indossare il velo islamico nel luogo di lavoro, velo che precedentemente non portava (nei 3 anni di lavoro in questa multinazionale) venne successivamente licenziata, fece ricorso e qua invece la Corte escluse che si possa parlare di discriminazione diretta perché non risultava che la norma  introdotta nell’azienda descritta sia stata applicata solo nei confronti della sig.ra Achbita in modo diverso da come sia stata applicata ad altri dipendenti.

In questo caso infatti la Corte di giustizia considera ammissibile la discriminazione indiretta determinata dalla necessità di promuovere una immagine neutrale dell’azienda anche se di fatto questo va a ledere il diritto libertà di pratica religiosa sancito dalla stessa Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’ Art 9 comma 2: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.”

Presupposto che per la Corte non vale, invece, per la sig.ra Bougnaoui, ingegnere informatico, il cui abbigliamento non costituiva “requisito essenziale e determinante” per lo svolgimento della mansione lavorativa a fronte della lamentela del cliente in merito all’abbigliamento dell’interessata (velo).

In conclusione, come abbiamo potuto constatare dalle due sentenze prese in esame: l’ordinamento condanna discriminazioni su base religiosa ma allo stesso modo tutela anche le cosiddette “neutralità aziendali”, concetto di problematica applicazione in quanto può costituire una discriminazione indiretta ma generalizzata.