Non c’è una parola per designare un genitore che ha perso un figlio

Dalla finestra della mia camera posso scorgere in questa fredda sera invernale un magnifico cielo, un cielo di cristallo dove lo sguardo può vagare fra la cintura di Orione, la stella di Cane e mille altre luminarie celesti. A Giuliano penso sempre, in sere come questa penso a lui, se possibile, ancora più intensamente. 

Penso a mio figlio, perché lui vive per me nel solo luogo dove ancora gli è dato di vivere: nel mio ricordo. E nel ricordo Giuliano è come se tornasse a prendere alito e carne, perché la mia mente lavora e lui ritorna come quando era con me, con la stessa dettagliata precisione di quando lo accompagnavo a scuola, di quando prendevamo un treno e insieme partivamo in viaggio; di quando potevamo ancora salutarci al risveglio di un mattino di un giorno di festa e lui era rientrato silenzioso di notte mentre io inconsapevole dormivo. La sua immagine spesso ritorna luminosa come le stelle di un limpido cielo invernale. 

E insieme a lui mi tornano in mente quei ragazzi, suoi fratelli di fede e di destino, non pochi purtroppo, che partiti da paesi europei e occidentali, si sono persi nell’abisso della guerra civile siriana, dove sono andati spinti sicuramente dall’entusiasmo e dall’ardore tipici della loro bellissima età, dall’innamoramento per la religione islamica, ma che per intraprendere quel loro viaggio senza ritorno la spinta decisiva l’hanno ricevuta da una bizzarra confraternita di imam e predicatori, in verità sempre presenti e attivi nella storia di ogni guerra, il cui motto è stato: armiamoci e partite. Ne renderanno conto un giorno. 

Esiste una parola per descrivere un figlio che ha perso un genitore: orfano. Esiste una parola per designare chi ha perso il coniuge: vedovo, vedova. Chissà perché non esiste parola per designare un genitore che ha perso un figlio. Eppure perdere un figlio è come essere mutilati, come avere strappato il cuore, le pupille degli occhi. Un dolore troppo grande, subito acutissimo e straziante, certo; ma che poi ti accompagna implacabile per i giorni che restano della tua vita.

Non c’è tragedia umana peggiore di perdere un figlio, di sopravvivere a un figlio. E non c’è comprensione umana e solidarietà superiore a quella che unisce genitori a cui è toccato in sorte questo dolore. Ho conosciuto mamme di altri ragazzi persi per sempre in Siria. Ho conosciuto Christianne, Karolina, Saliha, Geraldine, Ulla, Nicola e non molto tempo fa ho conosciuto Anna, mamma italiana di Francesco, perso in Siria nel 2016.

Siamo un club esclusivo, il club dei genitori di figli nati e cresciuti nel mondo occidentale, per alcuni il migliore dei mondi possibili, ma che nonostante questo, mistero per molti insondabile, sono partiti per la Siria a far la guerra e non sono più tornati a casa. 

Facciamo fatica ad afferrare il tempo, i giorni scivolano via con la consistenza e la fluidità della sabbia nella clessidra, quella clessidra e quella sabbia che sono i giorni della nostra vita.

Dicevo che non c’è tragedia umana peggiore alla perdita di un figlio; tuttavia la morte non cancella tutto, su questo non c’è da dubitare. Chi crede sa che questa vita che ci è data è solo un passaggio, un tempo sospeso; la morte è una porta che attende ogni essere umano, una porta che si apre sull’infinito. 

Ci deve essere una ragione anche se per noi misteriosa e incomprensibile che si cela dietro l’apparente assurdità del mondo. Giuliano e i suoi fratelli hanno visto questa ragione e hanno abbracciato la fede. Ci ritroveremo un giorno, inshAllah.