Non leggete i libri, fateveli raccontare: Bianciardi mette in guardia i giovani dalla mediocrità

Sembra che oggi non esistano più gli intellettuali, forse sono diventati transitori, intercambiabili o hanno semplicemente perso autorevolezza. In fondo ci mancano e allora si continua ad attingere agli sguardi del passato per farci insegnare qualcosa sul presente. Proprio quest’anno cade il centenario di uno sguardo formidabile, capace di imprimere su carta lo spirito italiano del boom economico, restituendone la futura superficie.

No, non si tratta di Pasolini ma di Luciano Bianciardi, che così definiva la sua categoria: “L’intellettuale affermato è di solito un uomo pigro e abitudinario; si ritiene democratico, ma segretamente crede ancora nelle caste.” Intanto Pasolini continua a incarnare la figura dell’eroe tragico in cui sublimare i nostri peccati, la cui celebrazione non è mai terminata, anche perché quei peccati non si sono mai esauriti; mentre lo sguardo del coetaneo Bianciardi, meno peccaminoso e più scomodo, non conteneva riscatto o nemesi alcuna, era perciò oltre ogni morale. In pochi lo ricordano e ancora in meno lo leggono, ma una raccolta inedita di sei brevi saggi lo riporta alla memoria. 

Tra le pagine di Non leggete i libri, fateveli raccontare Bianciardi immagina con sarcastica leggerezza il percorso ideale di un giovane, sprovvisto di qualunque talento, per arrivare al successo nel mondo dell’industria culturale. È l’unico modo per “salvare i giovani mediocri da un’esistenza mediocre”, dalle fatiche dell’università, dal finto impegno politico e dalla dorata cella della medio borghesia.

Salvarli anche dai miti del tempo: quello dell’operaio sano, perché “l’operaio è fatto esattamente come ogni altro uomo e perciò vuole esattamente quel che vogliono gli altri, in quel determinato momento storico: il frigorifero, l’utilitaria, la camicia bianca, la domestica a ore e i film di James Bond…” Dal mito del professore universitario, le cui lezioni sono una sintesi ispirata da libri che sono a loro volta delle sintesi dei soliti autori, il più giovane dei quali è morto almeno un secolo prima.

Oppure più in generale dal mito dell’emancipazione attraverso l’istruzione, perché l’educazione si potrebbe arrestare in seconda elementare, quando “un ragazzo normale sa già scrivere come un beatnik.” Se proprio ci s’intestardisce a proseguire gli studi, allora meglio scegliere un’università opposta ai propri interessi, partecipare soltanto a un corso e soprattutto farsi notare. In questo modo il giovane “nel frattempo avrà imparato la sola cosa che conta, e cioè come fare carriera… mentre una laurea, fra l’altro, è una specializzazione, quindi un limite: meglio non averla.” Anche perché il “il termine formazione culturale, non significa ormai più nulla. Nessuna persona seria e pratica vuole oggi formarsi: basta informarsi.”

Ecco gettate con spietata ironia e leggero pudore le basi culturali dell’Italia che verrà mentre, in quella che fu, Bianciardi disseminava le sue provocazioni, come la difesa della poligamia per porre fine alle contraddizioni dell’amore borghese oppure l’introduzione di un servizio di prostituzione obbligatoria alla stregua della leva militare, equiparando sesso e morte, al fine di criticare l’assurdità del servizio militare. Allo stesso modo provò a confondere comicamente il tabù sessuale con quello alimentare, per smarcarsi dal gusto dell’epoca – un gusto sempre presente per carità – fondato sul peccato, che per lui era soltanto un cattolicesimo travestito da libertinismo (quello di Pasolini, Moravia e confratelli, per intendersi). 

Eppure Bianciardi nell’industria culturale c’era entrato presto e dalla porta principale della Feltrinelli, del Corriere della Sera e dell’editoria, ma presto ne restò nauseato.

Anche perché non la sopportava quella veste di polemista, gettatagli addosso dalla reputazione. Era come se si chiedesse: Ma come, ne “La vita agra” distruggo i piccoli borghesi, i milanesi del boom e loro mi aprono le porte di casa e tessono le mie lodi? E quelle lodi infatti sapevano di funerale o di freak, di mostro da ostentare in piazza come fenomeno da baraccone; che poi erano i due esatti poli dell’intellettuale sessantottino, tra il funebre apocalittico e il circo dell’ostentazione. Si rese conto che, mentre lui ne faceva il ritratto, i borghesi lo celebravano per sublimare i propri difetti e poter continuare a far finta di niente, mentre l’amarezza restava attaccata addosso a chi li aveva dipinti. 

Allora decise di fuggire quel mondo, per una specie di coerenza, nient’affatto morale o intellettuale come quella capace di affascinare tanto i poveri di spirito. Una coerenza forgiata dalla vecchia vita di soldato e di compagno dei minatori. Una coerenza che era piuttosto una sensibile integrità, la testarda malinconia che coglie chi si affaccia dal vertice e non vede più nulla. Così lasciò Milano e il centro della cultura, per tornare a idealizzare la provincia che aveva fuggito.

Una scelta facile, visto che, come lui diceva, l’Italia è tutta una provincia, tranne Milano e Roma. Evitò il ritorno in Maremma per rifugiarsi in Liguria ma nel frattempo aveva disimparato quella vita e allora non restò che l’alcol, l’oblio e una lenta dissoluzione. Che non lascia svanire però il suo sguardo affilato, neanche a mezzo secolo di distanza, in un paese dove davvero non si legge più e le uniche storie che si raccontano, sono ormai attraverso le immagini. Non più quelle del cinema o della televisione, ma di instagram, tiktok e fratelli, dove si annidano i veri eroi di questi tempi. Quelli che Bianciardi avrebbe amato raccontare per dipingere un mondo non immorale, nemmeno amorale ma figlio di un vero e proprio al di là morale.