Fine del terrorismo? Serve un processo di pacificazione che porti verità, giustizia e riparazione

L’epoca in cui il cosiddetto “terrorismo islamico” monopolizzava l’attenzione mediatica, apparentemente quella politica dei governi occidentali e senza dubbio quella della propaganda sembra essere ormai un ricordo. 

Questa almeno è la nostra speranza, in quanto siamo consci che nella girandola delle emergenze e degli spauracchi del sistema potrebbe un giorno tornare ancora utile. 

Il mostro così come è apparso è svanito, si è sciolto nella liquidità tanto in voga, rappresentato come epocale ha avuto vita breve ma costituisce ancora un’ipoteca pesantissima sulla vita di decine di milioni di musulmani occidentali e sulla possibilità di una comprensione quanto mai necessaria. 

Questo evento non è stato però accompagnato da alcuna elaborazione approfondita del fenomeno, anzi allo stato attuale sembra che sia stato inavvertito, il terrorismo è scomparso, come se non fosse mai esistito. Certo, la fine di un’emergenza è coincisa con l’inizio di un’altra, quella pandemica, e quest’ultima ha ceduto il passo a quella bellica con gli annessi energetici e pertanto economici, ma questa sarebbe solo una ragione in più per interrogarsi. 

In effetti però non ci si dovrebbe stupire più di tanto poiché, negli anni in cui gli attentati hanno funestato il mondo, il giornalismo d’inchiesta soffriva di deficit di attenzione ed era in buona compagnia perché anche politologi, sociologi e magistrati hanno avuto poco di interessante da dire se non ripetere nella maggior parte dei casi pedissequamente il credo della propaganda anti-islamica. 

Ci sono state coraggiose eccezioni degne di nota, ma sono state tanto valorose quanto rare, vogliamo ricordare tra queste, agli albori del periodo in questione, un Tiziano Terzani che demoliva la violenta isteria che Oriana Fallaci dispensava direttamente dalle colonne del Corriere della Sera omaggiata dal sistema mediatico e dagli intellettuali di regime.

Anche la giustizia ha fatto difetto, non esiste infatti alcuna proporzione ragionevole tra la quantità di attentati, la forza attribuita a formazioni come Al Qaida e Isis e la realizzazione di processi con conseguenti condanne. Ciò rappresenta con tutta evidenza un vuoto enorme, perché se viene a mancare il giornalismo si spera che almeno resti traccia di una verità giudiziaria, niente di più lontano dalla realtà. 

Gli attentatori sono stati sistematicamente uccisi o sono morti suicidi, quasi sempre han fatto in modo di far ritrovare i loro documenti d’identità sul luogo del delitto ma questo non è servito ad aiutare gli inquirenti a trovare né i quadri superiori dell’organizzazione né le catene di rifornimento di armi, anzi nei pochi casi in cui i processi si sono svolti proprio su armi ed esplosivi ci sono state rivelazioni sconcertanti. 

Ad esempio dalle indagini sull’attentato all’Hyper Cacher a Parigi, in cui Amedy Coulibaly uccise quattro persone, si è appreso che il fucile d’assalto CZ e i quattro revolver Tokarev erano stati venduti dall’azienda slovacca KolArms alla società Seth Outdoor, nella zona di Lilla, gestita da Claude Hermant, trafficante, con un passato nel Front National e informatore della Gendarmeria dal 2013. La procura di Lilla però non ha potuto indagare oltre perché il Ministero della difesa francese si rifiuta di declassificare il dossier. 

Un altro caso interessante riguarda invece l’uomo che compì diversi attentati contro la comunità ebraica francese nel 2012 uccidendo tra Montaubane Tolosa tre militari e quattro civili si venne a scoprire che  la Dgse, ovvero l’agenzia francese che si occupa di spionaggio e antiterrorismo fuori dai confini nazionali, aveva garantito per lui – come informatore – un ingresso in Israele nel settembre 2010, attraverso un checkpoint al confine con la Giordania. Il francese, Mohammed Merah, era entrato come “turista” per poi tornare in Giordania e successivamente volare in Afghanistan. 

D’altronde, soprattutto noi italiani dovremmo sapere che possiamo aspettarci molto più di questo, a decenni di distanza dalla messa in atto della strategia della tensione, tutti sappiamo cosa sia, ma nessuno  ai vertici dello Stato è stato condannato. Si può dedurre che ieri come oggi fosse un fatto di interesse nazionale, nazionale americano si intende. 

Parliamo di un ventennio che ha rappresentato morte e dolore per tutti gli europei con conseguenze particolarmente nefaste per i cittadini musulmani, per questo la chiusura di questa fase necessiterebbe di una sorta di pacificazione. Uso questo termine perché considero che qualcuno abbia fatto la guerra agli europei, inducendo in loro il terrore, abbia fatto la guerra ai musulmani criminalizzandoli e cercando di manipolarli e inibirli e abbia fatto la guerra alla convivenza pacifica in Occidente.

Per superare questo periodo storico nefasto servirebbero quattro tappe indispensabili, ovvero: innanzitutto la verità, da questa deve derivare la giustizia e con la giustizia viene la riparazione, in ultima istanza è importante che vengano create le condizioni per la non ripetizione. Quindi parliamo di un processo che sia opposto a quello della rimozione in atto. 

Il rapporto dei musulmani europei è pesantemente ipotecato dal ruolo del terrorismo e la nostra stessa comunità è stata inevitabilmente plasmata da un ventennio di violenza psicologica e non solo. 

Il sospetto che ci circonda è ancora vivo, lo vive chi è evidentemente musulmano e non si mimetizza, chi indossa un hijab, lo prova sulla propria pelle ogni comunità che vorrebbe istituire la propria moschea per pregare. 

Questa pesante eredità è palpabile se guardiamo all’eccezionalismo ancora vigente in Italia: ci viene chiesto di adempiere a requisiti eccezionali per accedere ai più basici diritti costituzionali, con l’aggravante che questi diritti non ci vengono infine riconosciuti. 

Per questo motivo sono molto fiero di uno slogan che ho coniato in occasione di una manifestazione contro il terrorismo organizzata dal CAIM a Milano nel 2015, sui nostri cartelloni campeggiava la scritta: “No al terrorismo, si alle moschee questo slogan fu contestato e ritenuto inopportuno dai soliti che negli anni si erano piegati acriticamente ad ogni diktat per inseguire il miraggio dell’accettazione. 

Ancora oggi  ritengo quelle parole d’ordine emblematiche di una postura che la comunità avrebbe sempre dovuto temere, nessuna ambiguità nei confronti del terrore e al contempo nessuna concessione sul terreno dei diritti, rifiuto categorico della criminalizzazione e dell’essere relegati alla serie B della cittadinanza. 

In quegli anni ci è stato chiesto di dissociarci da qualcosa che non ci è mai appartenuto, ci è stato chiesto di diventare agenti di polizia e ci  è stato chiesto conto delle nostre dilazioni o dei nostri successi investigativi mentre nessuno chiedeva agli enti preposti quali fossero i risultati delle loro attività in merito. 

In quegli anni, ci è stato chiesto di dimostrare la nostra compatibilità che passava per l’imposizione di una riforma dell’Islam cercando di approfittare del terrorismo per forzarci a rivedere elementi dottrinali importanti in modo di accordarli a quello che si va configurando come pensiero unico dominante. 

Allo stesso modo si è spinto sulla volontà di eliminare ogni riferimento islamico dallo spazio pubblico e dall’impegno civile e politico o ancora di promuovere il musulmano “deislamizzato”, quello per cui l’Islam conserva una valenza esclusivamente culturale.

I mantra che sono stati utilizzati sono in sintesi i seguenti:

l’estremismo violento muove da una lettura fondamentalista del Corano, 

i musulmani non condannano il terrorismo, 

i musulmani che parlano delle guerre occidentali lo fanno per giustificare implicitamente la violenza, 

l’approccio critico dei musulmani nei confronti del terrorismo altro non è che complottismo, 

i terroristi vengono reclutati nelle moschee. 

Abbiamo inoltre subito la costruzione, la diffusione e le conseguenze pratiche del teorema per il quale dal peccato originale dell’”Islam politico” derivava il frutto avvelenato della violenza, così da teorizzare e pretendere la normalizzazione della nostra presenza, invisibilità nello spazio pubblico o secolarizzazione, riduzione del nostro credo a mero rituale privato, un l’islam new age insomma con la correlata inibizione di ogni volontà o capacità di critica radicale della realtà socio-politica.

Siamo spesso stati costretti a rispondere ad obiezioni dottrinali formulate nel gran circo dei talk show da politici ed intellettuali che erano stati bocciati pure al catechismo, ciò per dimostrare quanto fossimo divenuti un bersaglio per gli imprenditori della paura. 

Nella lunga lista delle latitanze di fronte a questa persecuzione odiosa e strisciante va aggiunta anche l’accademia, anche in quell’ambito poche sono state le voci competenti e dissonanti che si sono levate con coraggio per portare una parola di verità, anche i più tra gli accademici spesso segretamente musulmani son stati silenti o deboli. 

Dal 2001 la cosiddetta guerra al terrore, strumento ideologico della politica neocon, ha assunto una dimensione globale; le direttive di Washington verso alleati e vassalli erano chiare, l’Islam andava demonizzato per far digerire alle opinioni pubbliche occidentali invasioni ed occupazioni che porteranno alla distruzione di interi paesi ed al massacro di più di un milione di civili. 

Queste direttive furono spesso recepite dai servizi e a caduta dagli apparati di pubblica sicurezza e da alcune procure, erano anni in cui l’atmosfera era pesante e l’offensiva mediatica, tesa a creare un clima di paura, martellante. Prese vita quindi una caccia alle streghe che coinvolse molti cittadini musulmani finiti nel mirino degli inquirenti, a volte sbattuti per anni al carcere preventivo perché avevano la barba e la lingua troppo lunga o perché il traduttore aveva tradotto male una conversazione telefonica col cugino ad Islamabad o a Casablanca, salvo poi essere puntualmente assolti o condannati per reati minori come la falsificazione di documenti.

I ministri dell’Interno per ragioni di propaganda fecero abbondante uso delle espulsioni amministrative proprio perché non sussistevano reati e quindi condizioni legali per un processo. Questa pratica rende la misura dell’arbitrio tollerato nei confronti dei musulmani in quel periodo, anche grazie alla complicità di chi doveva  vigilare sulla Costituzione e sul frequente silenzio delle stesse organizzazioni islamiche annichilite dal clima ed ansiose di accreditarsi come rappresentanze dei musulmani buoni. 

La tenuta della comunità islamica italiana ha in effetti vacillato. Anche se con eccezioni degne di nota, in generale si è ceduto supinamente alla richiesta incessante di condanna e dissociazione,  da una cosa alla quale non ci eravamo mai associati, tanto che il dissociatore seriale è divenuto una figura centrale nei talk show e in tutti i salotti buoni a costo di dismettere ogni aspirazione al pensiero critico. 

Si è pertanto scatenata una patetica competizione su chi fosse il musulmano più moderato, una corsa a chi fosse più veloce a rinnegare pezzi della propria dottrina per compiacere l’establishment. L’emergere in ambito comunitario di figure che fanno proprio tutto l’armamentario ideologico progressista è stato un sintomatico della situazione e risultato delle pressanti richieste del sistema. 

Oggi svanita la pressione la realtà su questo fronte è in rapida evoluzione e la comunità esce dall’incubo e dall’assoggettamento scrollandosi di dosso certe costrizioni ideologiche e recuperando la propria autonomia di pensiero. Certamente però è chi ha saputo tenere la barra dritta nella tempesta della criminalizzazione e dell’eccezionalismo che ha oggi le carte in regola per indicare la via verso il futuro alla comunità. 

La scomparsa, si spera definitiva, del terrorismo e di tutto il quadro politico-ideologico che ne è derivato impone un serio processo di revisione ed analisi che deve essere esterno, inteso come a carico di tutta la società, e interno, intenso come appannaggio delle stesse comunità islamiche europee.

Questo processo deve fondarsi sulle esigenze di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione, affinché tutto il dolore delle vittime non sia del tutto vano.