Israele distrugge Jenin ma non la resistenza palestinese

È il 3 luglio 2023. È da poco scoccata la mezzanotte a Jenin. Tutti i bambini dormono, un anziano signore è appena riuscito a prender sonno e una madre di nove figli sta tirando fuori la carne dal freezer per il giorno seguente. Ad un certo punto dei rumori forti spaccano il cielo a metà. I piccoli della città si svegliano impauriti, alcuni piangendo, l’anziano signore posa una mano sul cuore e alla donna cade di mano il pezzo di carne congelato.

Non è un temporale, non sono fulmini. Sono missili, droni. Gli aerei da guerra dell’occupante sorvolano i tetti impazziti. Poco dopo entrano nella città anche via terra, impiegando circa 200 carri armati Merkava e bulldozer e 2000 soldati. La più grande operazione su larga scala condotta da Israele da almeno vent’anni comincia così.

Israele vuole sfruttare l’effetto sorpresa per riuscire il più possibile nella propria impresa. Secondo il comando militare dello Stato ebraico, l’azione era diretta contro un centro di coordinamento dei miliziani locali, le “Brigate Jenin”, unità che riunisce combattenti delle diverse fazioni arabe. L’obiettivo, aggiunge, era un “centro di osservazione e ricognizione” oltre che un deposito di armi, situato vicino a due scuole e a un centro medico. Il portavoce internazionale dell’esercito, Richard Hert ha dichiarato che l’idea dell’operazione è quella di “rompere la dinamica dei terroristi”: poiché nell’ultimo anno e mezzo, a detta sua, “più di 50 tentativi di attentati sono stati effettuati da militanti con base a Jenin.” Difatti, prima di questa operazione su larga scala, dall’inizio dell’anno Israele aveva attuato circa venti incursioni nella città di Jenin.

Ma questa volta è diverso. È un vero e proprio attacco via terra e cielo.

Il campo profughi di Jenin ricorda bene quella ferita. Era il 2002 quando, durante la Seconda Intifada, subì una brutale invasione. 8 giorni – dal 3 all’11 aprile – di bombardamenti che rasero al suolo il campo. Il ricordo di quell’attacco rende ancora più spaventosa e lunga la notte del 3 luglio. Quelli che allora erano giovanissimi, quella notte sono adulti e sanno quanto riesce ad essere crudele e disumano l’occupante. Nel campo profughi di Jenin viene interrotta l’erogazione della corrente elettrica. Buio. I bulldozer raschiano le strade nel timore che vi siano ordigni esplosivi. I soldati ordinano alle famiglie di abbandonare le case.

Le immagini che il mondo vede evocano quelle della Nakba del ‘48 e della Naksa del ‘67. Anziani, donne con in braccio neonati, bambini, camminano per le strade buie del loro campo.  Sono circa 3000 le persone costrette ad abbandonare le proprie case. Anziani in sedia rotelle, ragazzi con le stampelle. Tutti devono uscire. Qualcuno sottobraccio prende un cuscino, delle lenzuola. L’esercito vuole controllare casa per casa che non siano nascoste armi o qualunque altra cosa sospetta.

Intanto gli aerei da guerra uccidono. Il bilancio è di cento feriti, venti dei quali gravi e dodici morti. 

Samih Firas Abu al-Wafa, (20 anni), 

Hossam Abu Diba (18), 

Ahmad Mohammad Ammar (21), 

Aws al-Hanoun (18), 

Nour Eddin Husam Marshoud (16), 

Ali Hani al-Joul (17) 

Majdi al-Ararawi (17)

Mustafa Imad Qasem (16)

Mohammad Muhannad Yusef Shami (26)

Jawad Mujahed Nairat (20)

Abd Al Rahman Hardan (17)

Odai Ibrahim Mahmud (20)

Tutti giovanissimi e Israele afferma: “erano tutti terroristi.” Senza consegnare uno straccio di prove. In un comunicato, la Casa Bianca e e gli altri paesi occidentali dichiarano: “Israele ha il diritto di difendersi.” E la difesa di Israele consisterebbe nell’uccisione di innocenti, nell’invadere con mezzi pesanti un campo profughi in piena notte, nel commettere crimini di guerra e contro l’umanità, come colpire paramedici, attaccare l’ospedale Al-Amal con gas lacrimogeni, causando gravi danni materiali, impedire alle ambulanze di soccorrere i feriti e cacciare intere famiglie dalle proprie case.

In tutto questo, durante la giornata di lunedì la resistenza di Jenin non si è fatta intimidire. Ha agito abbattendo droni, colpendo carri armati e fronteggiando il nemico. Dopo quarantotto ore l’operazione “Casa e giardino” si è conclusa ieri mattina, mercoledì 5 luglio e l’esercito israeliano si è ritirato. Quello che ha lasciato dietro sé è distruzione. Le pale delle ruspe militari israeliane, giganti con cingoli alti alcuni metri, hanno spaccato, sollevato e accumulato a destra e sinistra il manto d’asfalto delle strade portandosi dietro parte della rete idrica e i pali dell’elettricità. Il campo è senza corrente e internet. Si è stimato che l’80 per cento degli edifici sia stato danneggiato.

Quelli che erano stati cacciati dalle proprie case, tornano. C’è chi ritrova la propria casa e chi no. E soprattutto, c’è chi deve salutare per sempre il proprio caro. In migliaia, nelle strade distrutte e fangose si uniscono al corteo dei dodici martiri. Ogni martire è avvolto nella bandiera palestinese e appoggiato su tavole di legno portate in spalla da parenti e amici. È doloroso, come sempre, come ogni volta per il popolo palestinese.

Il campo profughi di Jenin sa che probabilmente non è finita qui. Perché l’obiettivo dell’operazione non è stato raggiunto. Nonostante i vertici militari dichiarino il contrario, i combattenti non sono stati distrutti e nessuna dinamica della resistenza è stata indebolita. Tra le file dei combattenti palestinesi non vi è stata nessuna capitolazione, nessun accordo col nemico e oltre a questo nessun capo della resistenza è stato arrestato. Israele è entrata nel campo ed è uscita senza raggiungere alcuna vittoria militare. Ha semplicemente effettuato un’operazione di punizione collettiva verso gli abitanti (circa 20.000) del campo. Addirittura, durante il corteo per i martiri,i combattenti hanno marciato per le strade mostrando al mondo i propri fucili: “Non siamo stati distrutti, siamo ancora qui.”

Semmai, è stata rafforzata. È ormai chiaro ai palestinesi che l’obiettivo del governo sionista è quello di annettere de facto la Cisgiordania a Israele e che per farlo ha bisogno prima di distruggere la resistenza.

Di recente, il 26 giugno, il premier B.Netanyahu ha infatti affermato che “Israele deve eliminare ogni aspirazione dei palestinesi ad avere uno stato indipendente” e in un tweet del 28 dicembre aveva annunciato che le linee guida del suo Governo includeranno il principio base secondo il quale “il popolo ebraico detiene il diritto esclusivo e indiscutibile su tutti i territori della terra di Israele tra cui la Cisgiordania.” 

Ora nel campo profughi di Jenin è il momento di ricostruire, senza troppi sogni. Con la consapevolezza che presto o tardi quelle stesse strade ricostruite potrebbero essere distrutte di nuovo. Ma gli abitanti del campo profughi sono sereni, dicono alle telecamere: “Non fa niente, alla resistenza vanno le nostre case, le nostre strade e i nostri figli. Per la resistenza diamo tutto.”