Trattative: l’apertura di Hamas, la chiusura del governo israeliano

Hamas nella sua storia decennale di resistenza politica e armata ad Israele non è rimasta rigida nelle sue posizioni.

Consapevole di dover affrontare situazioni politiche mutevoli dei vicini arabi, che influenzano direttamente la causa palestinese, ha adottato una politica chiara: fermi nell’obbiettivo finale ma flessibili nella modalità di raggiungimento. Nel 1988 quando è nata Hamas, nel panorama palestinese era già presente l’Olp di Arafat, con la quale Hamas ha intessuto importanti relazioni politiche almeno fino al 2006, quando la stessa Olp ha cercato di eliminarla su richiesta di Israele, dopo che questa aveva vinto le prime elezioni democratiche svolte in territorio palestinese.

Con lo scoppio della rivoluzione siriana del 2011, Hamas che aveva una importante sede a Damasco, ha deciso di chiuderla in uno scontro chiaro con il regime di Assad reo di reprimere nel sangue le rivolte popolari, ma al contempo ha collaborato e collabora attivamente con Hezbollah, le milizie sciite presenti in Libano e in Siria che appoggiano Assad.

Può sembrare follia, ma è semplicemente politica. Avere una posizione chiara come quella contro Assad, non deve distogliere dall’obiettivo finale: la battaglia contro l’occupazione. Nel frattempo Hezbollah nel nord di Israele è un pericolo costante per Tel-Aviv oltre al fatto che entrambi le organizzazioni – Hezbollah e Hamas – ricevono aiuti militari ed economici dall’Iran, strategico paese nell’area. 

L’apertura verso Israele

Tornando allo stretto contesto palestinese nel 2017, Hamas in una conferenza stampa afferma di essere disposta a riconoscere la creazione di uno Stato palestinese sui confini stabiliti nel 1967 dalle Nazioni Unite, come prima apertura verso l’idea di uno stato nazionale accanto a quello ebraico. Questo è un riconoscimento implicito della presenza di una entità statale altra che è Israele, anche se questo non viene riconosciuto formalmente, ma è una apertura importante.

Israele risponde a questa apertura affermando che “è solo una presa in giro”. In quell’anno il numero di coloni presenti sui territori palestinesi occupati raggiungono quota 800mila, aumentati di 100mila unità rispetto al 2014 in una escalation senza precedenti. Una delle richieste di Hamas infatti, cosi come indicano le risoluzioni Onu, è che siano smantellate le colonie e che i rifugiati palestinesi cacciati dalle proprie terre nel 1948 così come nel 1967 possano tornare. Israele ha sempre rifiutato e nonostante abbia dichiarato al mondo di essere disponibile alla pace dal 1990 ad oggi la presenza di coloni sui territori occupati sono passati da 200mila nel 1990 a quasi 900mila oggi. Un aumento costante ogni anno, senza nessun tipo di remora.

Il 7 Ottobre e gli ostaggi

Hamas ha dimostrato un’apertura che stupisce, nonostante l’offensiva in corso da parte di Israele dal 7 ottobre. La volontà di scambiare ostaggi potrebbe non essere scontata in una situazione di conflitto così esteso, ma sembra che Hamas sia disposto a considerare la liberazione degli ostaggi, sia in modo immediato che in diverse fasi, in cambio della liberazione dei prigionieri palestinesi.

Anche qui l’obiettivo fermo e chiaro ma flessibili nel modo di agire. Modalità che si riscontra anche sul campo di battaglia: le continue incursioni oltre le linee nemiche nonostante le truppe israeliane siano dentro la Striscia mostra una resilienza psicologica e militare da parte delle forze militari palestinesi molto efficace. Granitica sulla sua posizione invece pare essere Israele, costante nel genocidio del popolo palestinese.