Dietro il rubinetto: svelare l’apartheid israeliano nell’accesso all’acqua Palestinese

Nel 2017, Amnesty International pubblicò un’analisi critica sul tema delle conseguenze durature dei cinquant’anni di occupazione israeliana dei territori palestinesi, con un’enfasi particolare sulle violazioni sistematiche dei diritti umani legati all’accesso all’acqua.

Con l’istituzione del controllo israeliano sulle risorse idriche e sulle infrastrutture nei Territori palestinesi occupati (OPT) immediatamente dopo l’occupazione del 1967, le autorità militari israeliane esercitavano un potere assoluto, istituendo politiche che, nel tempo, hanno gravemente limitato l’accesso dei palestinesi all’acqua pulita e sicura.

Al centro di questa oppressione c’è l’emanazione dell’Ordine Militare 158 nel novembre 1967, un decreto che impone ai palestinesi di ottenere i permessi dell’esercito israeliano per qualsiasi nuova installazione legata all’acqua. L’impatto duraturo di questo ordine si manifesta da allora nella continua incapacità dei palestinesi di costruire nuovi pozzi, installare pompe o accedere a fonti d’acqua vitali come il fiume Giordano e sorgenti fresche.

Il paradossale non tanto sorprendente vede Israele che pur imponendo restrizioni all’accesso all’acqua ai palestinesi, ha contemporaneamente sviluppato una propria infrastruttura idrica ed illegale imponente in Cisgiordania. La compagnia idrica statale, Mekorot, diventa un attore centrale in questo contesto, fornendo sistematicamente acqua ai cittadini israeliani e per estensione agli insediamenti illegali. La conseguenza per i palestinesi è una forte dipendenza dall’acquisto di acqua a prezzi esorbitanti, che spesso rappresentano una parte significativa del reddito familiare.

Le difficoltà economiche sono aggravate dalle restrizioni all’accesso ad alcune parti della Cisgiordania, designate come “aree militari chiuse”, limitando ulteriormente la capacità dei palestinesi di assicurarsi risorse idriche essenziali. Vi è anche una forte disparità nell’accesso all’acqua tra israeliani e palestinesi, con i coloni israeliani che godono di ampie risorse idriche in prossimità delle comunità che affrontano gravi carenze.

La situazione è ancora più grave a di Gaza, dove da anni il 90-95% della fornitura idrica è contaminata e le restrizioni impediscono il trasferimento di acqua dalla Cisgiordania. La falda acquifera costiera, la principale fonte di acqua dolce di Gaza, è esaurita e contaminata, esacerbando la crisi umanitaria.

Un caso emblematico che chiarisce ulteriormente la brutalità delle restrizioni israeliane sono riportate anche da un report che l’ONU pubblicò nel 2009 e sviluppato dalle due organizzazioni umanitarie EWASH e Al-Haq. Nel rapporto si evidenziano le demolizioni israeliane di qualsiasi infrastruttura idrica palestinese nei territori palestinesi occupati illegalmente. Un caso particolarmente significativo è rappresentato dall’affermazione di Israele secondo cui l’acqua piovana è di sua proprietà.

Nel luglio 2009, le forze militari israeliane hanno emesso ordini di sospensione dei lavori e/o di demolizione delle cisterne in costruzione nel villaggio di Tuwani, anche se gli abitanti del villaggio di Tuwani si trovavano ad affrontare una grave carenza d’acqua a causa della siccità e delle restrizioni israeliane sempre più stringenti sui movimenti necessari per raccogliere l’acqua in cisterne, e attacchi alle risorse idriche e alle infrastrutture da parte dei coloni israeliani.38 Se costruite, queste cisterne avrebbero notevolmente alleviato la crisi idrica per la popolazione di Tuwani. Tuttavia, secondo gli ordini militari israeliani in vigore nella zona, la pioggia è proprietà delle autorità israeliane e quindi ai palestinesi è vietato raccogliere acqua piovana per esigenze domestiche o agricole. Nel 2010, Israele ha approvato la costruzione di un punto di riempimento nel villaggio di Tuwani che ha alleviato il problema della disponibilità di acqua nel villaggio anche se la capacità del punto di riempimento era significativamente inferiore alla capacità richiesta dalle agenzie umanitarie (meno di 1/4). per servire i villaggi circostanti, considerati il gruppo di comunità più a rischio di scarsità d’acqua in Cisgiordania. Il risultato di queste azioni e omissioni da parte di Israele è che molti palestinesi si ritrovano sempre più senza accesso all’acqua, rendendo la vita insostenibile e costringendoli allo sfollamento. 

Le pratiche discriminatorie, le restrizioni esistenti e le urgenti esigenze di sicurezza idrica di milioni di palestinesi sono tutti temi che sottolineano i diritti umani fondamentali in gioco, compreso il diritto all’acqua, al cibo, alla salute, al lavoro e a uno standard di vita adeguato. Questi diritti sono negati ai palestinesi non a causa di forza maggiora come disastri ambientali bensì all’intenzionali politiche di dominazione ed oppressione del regime apartheid israeliano. L’accesso all’acqua, che è uno dei diritti più basilari, viene così negato e la hubris israeliana arriva ad arrogarsi persino la proprietà dell’acqua piovana mentre negli stessi territori illegalmente occupati i coloni vivono in giardini rigogliosi.

L’oppressione e l’oppressore sono separati da un muro simbolico, una barriera che si staglia come un potente simbolo di un apartheid violento e deumanizzante. Da un lato, si trova un paesaggio rigoglioso, dominato dagli oppressori che sottraggono ogni diritto agli oppressi. Dall’altro lato del muro, si estende un ambiente arido, dove ogni forma di vita viene risucchiata dagli oppressori, creando un contrasto marcato e un dualismo impressionante nella rappresentazione di questa drammatica disparità.