Manca un Ghandi Palestinese: il ritornello che ignora la lunga lotta non violenta contro l’occupazione 

“Credo che, dove ci sia solo una scelta tra codardia e violenza, consiglierei la violenza…Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che dovesse, in modo codardo, diventare o rimanere testimone impotente del proprio disonore.

Tuttavia io credo che la nonviolenza sia infinitamente superiore alla violenza, il perdono è più virile della punizione. Il perdono abbellisce un soldato…Ma la moderazione è perdono solo quando c’è il potere di punire; non ha senso quando proviene da una creatura indifesa.” – Mahatma Gandhi

“Se solo ci fosse un Gandhi palestinese” è un ritornello che si sente e si legge da anni, diventata ormai una frase fatta, un luogo comune, eppure, in realtà, i palestinesi hanno una lunga storia di resistenza non violenta. Purtroppo, la nonviolenza non ha mai ricevuto una risposta costruttiva né da Israele né dalla comunità internazionale.

Il fallimento nel riconoscere ed accettare il movimento di resistenza non violenta palestinese serve, fino ad oggi, a prolungare il conflitto e l’occupazione, e mette a nudo il rifiuto da parte della comunità internazionale di affrontare le violazioni dei diritti umani cuore del conflitto israelo–palestinese.

Storicamente proteste non violente dei palestinesi possono essere documentate fin dall’epoca ottomana, tuttavia esse divennero particolarmente rilevanti durante il mandato coloniale britannico. La rivolta araba del 1936-1939 fu un’eccezionale manifestazione di nonviolenza e fu caratterizzata dalla presentazione di istanze politiche, di petizioni diplomatiche, da proteste popolari, scioperi ed altre forme di disobbedienza civile. 

Tuttavia queste azioni non violente ricevettero dal colonizzatore britannico una risposta brutale, fredda e disumana. Migliaia di palestinesi furono arrestati per il solo fatto di aver espresso la loro opposizione al colonialismo o per aver aderito a movimenti politici che sfidavano il dominio coloniale. Coloro che resistettero violentemente furono braccati e uccisi, le impiccagioni erano ordinaria amministrazione britannica.

La Nakba

Dopo la Nakba (catastrofe) del 1948 che vide l’uccisione di 15 mila palestinesi, la distruzione di 530 villaggi e l’espropriazione e l’espulsione di oltre 750 mila palestinesi (la popolazione della Palestina nel 1948 era di 1,4 milioni circa di abitanti), la preoccupazione di quelli rimasti all’interno dei confini della Palestina storica fu quella di sopravvivere in condizioni difficili sotto il governo militare israeliano oppure nei territori all’epoca amministrati da Giordania ed Egitto. 

All’inizio i palestinesi espulsi credevano e speravano nel ritorno, anche a seguito della risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Tuttavia, con la progressiva presa di coscienza che il ritorno in Palestina diventava sempre più lontano e che la comunità internazionale li aveva abbandonati, i palestinesi iniziarono sempre più a percepire la lotta armata come l’unica che avrebbe consentito loro di ottenere i loro diritti, così negli anni 50 i fedayn iniziarono azioni di guerriglia armata contro il nuovo stato israeliano dai territori dei paesi limitrofi.

Dal 1967, dopo la guerra dei 6 giorni, il controllo Israeliano sui territori palestinesi sottratti al controllo giordano (Cisgiordania) ed egiziano (Gaza) fu brutale, autoritario e repressivo. I palestinesi avevano bisogno di un permesso per ogni aspetto della vita quotidiana, anche solo esprimere la volontà ed il pensiero di autodeterminazione era un atto criminale punito con violenza, l’economia palestinese fu distrutta e resa totalmente dipendente da quella israeliana. La società civile palestinese rispose con una resistenza sia nonviolenta che violenta. Le tattiche non violente comprendevano scioperi, disobbedienza civile, non cooperazione con gli ufficiali militari, manifestazioni e boicottaggi sulla fornitura di manodopera ad Israele. La resistenza violenta consisteva in attacchi di guerriglia contro Israele e uccisioni di sospetti “collaboratori” palestinesi.

A seguito del fallimento, sia dei tentativi diplomatici ché degli attacchi dei fedayn, nell’apportare un miglioramento alla situazione dei palestinesi, la lotta armata palestinese divenne più radicale, emblematico di questo periodo fu l’uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. 

Tali azioni danneggiarono gravemente la causa palestinese e fornirono credibilità alla versione israeliana che accusava la resistenza palestinese di essere esclusivamente un’organizzazione terroristica. Al sentimento di frustrazione palestinese si sommò la vittoria israeliana nel 1973 contro gli stati arabi nella guerra dello Yom Kippur. Come di consueto anche in questo periodo ci fu, a livello internazionale, un’assenza della condanna delle violazioni israeliane del diritto internazionale, della forma estremamente oppressiva dell’occupazione, delle espansioni illegali degli insediamenti, della pulizia etnica e del rifiuto di attuare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

La Prima Intifada 

Un importante punto di svolta nella lotta non violenta palestinese si ebbe a seguito dello scoppio della “prima Intifada” nel 1987: tale rivolta fu popolare e coinvolse persone di tutti i segmenti della società. I palestinesi scesero in strada numerosi, intrapresero azioni nonviolente come l’organizzazione di manifestazioni, la costruzione di barricate e posti di blocco, la messa a fuoco di pneumatici, l’organizzazione di sit-in, la partecipazione a scioperi e altri esempi di disobbedienza civile che andarono dallo sviluppo di strategie di autosufficienza all’indossare i colori e la bandiera nazionale palestinese che era fuorilegge. 

Dato che all’epoca molti uomini palestinesi erano imprigionati o sotto detenzione amministrativa, le donne e i giovani giocarono un ruolo chiave nell’Intifada, che fu, per la maggior parte, disarmata (la Forza di Difesa Israeliana (IDF) classificò il 97% delle attività dell’Intifada come nonviolente). Una delle principali forme di protesta, che finì per simboleggiare la natura della rivolta fu il lancio di pietre contro le forze di sicurezza israeliane, il che diede il soprannome alla rivolta di “Rivoluzione delle pietre”. 

La repressione fu violenta e sproporzionata e si ritorse contro gli israeliani sia internamente che internazionalmente, dato che portò ad un cambio di percezione riguardo la causa palestinese. L’OLP e il PNC cercarono di capitalizzare i successi mediatici e decisero di sedersi ad un tavolo con gli israeliani che furono “costretti” a partecipare alla conferenza di Pace di Madrid (1992).

Sebbene una parte considerevole dei palestinesi accolse con entusiasmo questa nuova fase, non ci volle molto per capire che il processo di negoziazione era impostato quasi esclusivamente a garantire la sicurezza di Israele e che serviva come distrazione mentre gli Israeliani continuavano a costruire nuove colonie nelle terre occupate della Palestina. La frustrazione tra i palestinesi aumentò e la situazione non sembrava migliorare affatto. Avendo l’OLP rinunciato a forme di resistenza armata all’occupazione ed all’oppressione israeliana, questa venne portata avanti, dagli anni 90 in poi, principalmente dal nuovo movimento di ispirazione islamica Hamas (e da altri gruppi armati minori).

La Seconda Intifada 

La provocatoria marcia di Ariel Sharon (il carnefice di palestinesi a Sabra e Chatila) nel settembre del 2000 sulla spianata delle moschee con oltre mille soldati, vide la protesta dei fedeli musulmani presenti, che furono poi attaccati dall’esercito israeliano il quale uccise 6 civili e ne ferì gravemente oltre 220. 

Questa fu la scintilla della seconda Intifada, e sebbene durante il primo mese di protesta i palestinesi non usarono armi da fuoco, gli israeliani, nello stesso periodo, spararono contro i manifestanti disarmati più di 1,3 milioni di proiettili. Questo abnorme uso di violenza spinse la parte palestinese, principalmente Hamas ad adottare forme di resistenza armata tra cui l’uso di attentatori suicidi (pratica controversa e criticata anche da molti sapienti musulmani, che verrà vietata dallo stesso movimento qualche anno dopo). 

Mentre nella prima intifada i palestinesi uccisi furono quasi 1,500 (di cui oltre 300 bambini) nella seconda i morti palestinesi furono quasi 5,000 di cui oltre 1,300 bambini e quasi 300 donne. Questo per indicare che la repressione israeliana fu ancora più violenta e brutale e vide il quotidiano uso di elicotteri da combattimento, carri armati, missili, omicidi mirati e punizioni collettive.

Sebbene la seconda intifada fu più violenta della prima, molti palestinesi rimasero fedeli alla pratica della resistenza nonviolenta attraverso azioni e manifestazioni di protesta pacifica, disobbedienza civile, boicottaggio israeliano, fornitura di assistenza legale e molti altri atti di solidarietà. Questi sforzi nonviolenti, tuttavia, ricevettero poco riconoscimento, e nonostante la violenza principale e più grande fosse quella israeliana, furono i palestinesi a subire maggiormente la condanna internazionale. L’uso della nonviolenza durante questo periodo fallì nell’ottenere dei significativi vantaggi per i palestinesi.

Il post seconda intifada vide i palestinesi adottare forme di resistenza più pacifiche, anche costretti dalla sproporzione di forze in campo, ma tale cambiamento non solo non ricevette nessun riconoscimento positivo israeliano (e neanche internazionale) ma vide le forze occupanti adottare misure sempre più drastiche, brutali e violente.

Le azioni di protesta non violente furono i principali mezzi con cui i palestinesi protestarono contro la costruzione del vergognoso muro di separazione che iniziò nel 2002 in piena seconda intifada per dividere i palestinesi dai coloni israeliani. Emblematica della risposta israeliana alle proteste non violente fu, nel 2003, la morte di Rachel Corrie, un’attivista americana che si opponeva pacificamente con il proprio corpo alla distruzione delle case dei Palestinesi e per questo fu uccisa da un Caterpillar Israeliano che la schiacciò sotto le sue ruote. Come di consueto nella violenza israeliana contro civili inermi, nessuna conseguenza legale o penale per gli assassini che rimangono tuttora impuniti.

La nonviolenza è stata praticata dai palestinesi anche per opporsi alla confisca della terra e di altre risorse, all’espansione degli insediamenti, alla demolizione delle case, alla violenza dei coloni e delle forze di sicurezza israeliane. I Palestinesi che utilizzano le tattiche di nonviolenza sono stati e sono tutt’ora brutalmente repressi dalle forze israeliane, e talvolta anche dalle forze dell’Autorità Palestinese (AP) che agiscono in collaborazione con Israele nel mantenere la “sicurezza” nei centri urbani della Cisgiordania. La repressione dei pacifisti palestinesi da parte dello Stato israeliano comprende la negazione di visti o permessi, l’arresto e la detenzione anche per anni senza processo, la violenza e la tortura.  

La Freedom Flotilla

La vittoria di Hamas a Gaza nelle elezioni del 2006 provocò scontri interni con l’AP e quando il movimento islamico nel 2007 prese il controllo della striscia, Israele ed Egitto imposero un blocco navale terrestre ed aereo tutt’ora in corso. La miseria e la disperazione che questo assedio provoca ai civili palestinesi fu il motivo che spinse diversi movimenti umanitari e pacifisti internazionali a tentare di forzare il blocco per portare aiuti umanitari alle popolazioni sofferenti di Gaza (la Freedom Flotilla). 

Emblematico del modo in cui gli israeliani repressero questi tentativi pacifici fu l’attacco militare alle navi della “Freedom Flotilla for Gaza”, avvenuto il 31 maggio 2010. Durante questa aggressione militare, le forze speciali israeliane dopo aver abbordato le navi, salirono a bordo ed assassinarono 10 attivisti umanitari, ferendone molti altri. Per questi fatti la corte penale internazionale, chiamata in causa per investigare i crimini di guerra israeliani, nel 2014 decise di non perseguire Israele e da allora ogni altro tentativo di fare giustizia legale è fallito.  

Gli scioperi della fame 

Altri tipi di resistenza non violenta, sono gli scioperi della fame dei detenuti palestinesi arrestati e tenuti in prigione per anni senza capi di accusa né prove, in un’eterna “detenzione amministrativa”. Sebbene gli scioperanti siano riusciti in alcuni casi a far riaccendere i riflettori sulla violazione israeliana dei diritti umani e ad ottenere condizioni più umane per i detenuti, la recente morte di Khader Adnan alla fine di uno sciopero della fame durato mesi, accolta dalla totale indifferenza e disinteresse della comunità internazionale, non lascia molta speranza a questa forma di resistenza pacifica.  

Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni 

Dato il fallimento della comunità internazionale mainstream nel rispondere a questo tipo di iniziative, molti commentatori sostengono oggi che l’opzione nonviolenta più praticabile nella lotta per i diritti dei palestinesi è il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). Il movimento BDS nato nel 2005, mira a combattere le violazioni dei diritti dei palestinesi (e del diritto internazionale più in generale) commesso da Israele attraverso:

  1. il boicottaggio di “prodotti e aziende (israeliane e internazionali) che traggono profitto dalla violazione dei diritti dei palestinesi” ed il boicottaggio “Culturale e accademico delle istituzioni israeliane” che “contribuiscono direttamente a mantenere, difendere o sminuire l’oppressione dei palestinesi”,
  2. il disinvestimento da “società complici nella violazione dei diritti dei palestinesi”, 
  3. e la promozione di sanzioni contro Israele fino a quando i diritti dei palestinesi non saranno riconosciuti “nel pieno rispetto del diritto internazionale”.

I fautori del BDS sostengono che si tratti di uno strumento nonviolento connesso al diritto internazionale ed ai principi dei diritti umani universali, così come il movimento contro l’apartheid BDS del Sud Africa. L’efficacia del BDS deriverebbe dalla sua capacità di fare pressione sullo Stato di Israele affinché termini l’occupazione, rendendola troppo costosa economicamente, ed anche nell’influire sullo status e la reputazione di Israele all’interno della comunità internazionale.

Sebbene il movimento BDS conti ufficialmente più di una ventina di maggiori successi (soprattutto nei primi anni di vita) nel riuscire a convincere alcune aziende ed organizzazioni occidentali a disinvestire oppure a condannare l’occupazione israeliana, in quasi 20 anni non è riuscito ad avere un impatto significativo sulla questione palestinese, dato che, come sottolineato da qualche critico “dove si conta, nelle sale dei governi e nei consigli di amministrazione, lo sforzo di boicottare Israele non viene nemmeno registrato”. Per di più lo sforzo diplomatico e mediatico israeliano è riuscito in alcuni casi a dipingere e far condannare o proibire il movimento BDS dichiarandolo “antisemita”.

Ritornando a Gandhi, di cui molti auspicano la nascita in Palestina, c’è da considerare il fatto che non un singolo progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati ricorressero alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o addirittura esigere con rabbia la liberazione non ha mai funzionato. Ironia della sorte, questo è anche uno dei messaggi chiave della pasqua ebraica. 

La storia dell’esodo racconta come il Profeta Mosè, pace su di lui, si recò più volte dal Faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù, tuttavia, ogni volta il Faraone rifiutò. Fu solo dopo che fu dispiegata una terribile violenza contro gli egiziani che gli israeliti furono liberati

Invece di chiederci quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dovremmo chiederci quando Israele produrrà un leader che non sostenga la sottomissione dei palestinesi attraverso l’impiego della violenza omicida. Quando, in altre parole, Israele si libererà finalmente del suo ethos faraonico e realizzerà che i palestinesi sono esseri umani ed hanno diritto alla libertà.

Quando il film hollywoodiano su Gandhi fu tradotto in arabo e proiettato in tutti i territori della Palestina con la speranza che ispirasse la nonviolenza (progetto finanziato da ricchi uomini d’affari americani) molti commentatori iniziarono con la solita domanda retorica su Gandhi. La migliore risposta venne da un famoso blogger pacifista israeliano: “Ci sono migliaia di Gandhi palestinesi là fuori; interi villaggi che manifestano quotidianamente e pacificamente contro il furto della loro terra e dei loro mezzi di sussistenza. Tuttavia, l’unica voce che sentiamo è quella dei commentatori e delle star del cinema che si chiedono: “Dov’è il Gandhi palestinese?”