Gaza mette di nuovo a nudo i doppi standard dell’Occidente

Sin dal 2001, con l’attacco alle Torri Gemelle, e i successivi attentati in seno all’Europa, è stato spesso raccontato al mondo intero che era scoppiata una guerra tra mondo occidentale, difensore dei valori democratici, e quegli attori che non incarnavano i dettami dell’Occidente: prima i terroristi islamici, poi Saddam, poi Gheddafi, poi di nuovo i terroristi islamici sotto un altro cappello, poi la Russia, ora Hamas. Qualcuno aveva anche parlato di “guerra di civiltà”, Occidente vs. Islam, dove i musulmani sono i cattivi di turno che non accettano i valori democratici assodati in USA ed Europa. 

Nel frattempo, l’Occidente ha portato avanti diversi conflitti per “civilizzare” alcuni paesi del Medioriente e dell’Africa, in particolare Afghanistan, Iraq e Mali: se si prende in esame il conflitto in Afghanistan, secondo il rapporto MILEX, le vittime dirette complessive sono oltre 140 mila, mentre quelle indirette (dovute a condizioni precarie causate dal conflitto) sarebbero superiori a 360 mila.  

Tuttavia, le recenti guerre mostrano senza troppi fronzoli come l’Occidente stia utilizzando doppi standard nell’approcciarsi alle situazioni conflittuali nel mondo: prima dalla parte dell’Ucraina invasa, poi in difesa di Israele, paese occupante.

I recenti conflitti: due pesi e due misure

Due mesi dopo lo scoppio della guerra d’invasione dell’Ucraina (24 febbraio 2022), la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen dichiarava che la Russia stava utilizzando i rifornimenti di derrate alimentari e di risorse energetiche come mezzi di ricatto per ottenere il supporto politico: “La Russia sta bloccando sul Mar Nero le navi ucraine che trasportano il grano e le sementi di girasole; le conseguenze di questi vergognosi atti sono ben visibili a tutti. […] La Russia sta utilizzando la fame e il grano per esercitare potere”.

Milioni di ucraini hanno trovato rifugio in Europa, che ha garantito loro aiuti economici. Dall’inizio della guerra di invasione ad oggi, l’Unione Europea e gli stati membri hanno stanziato in favore dell’Ucraina oltre 82 miliardi di euro di sostegno economico, suddiviso in assistenza finanziaria, umanitaria e militare, e sussidi per i rifugiati accolti nell’Unione, nonché prestiti e sovvenzioni. Per il 2023 sono stati approvati 18 miliardi di euro in favore del paese, suddivisi in uno stanziamento regolare e stabile di 1,5 miliardi al mese.

Al contrario, quando Israele ha lanciato su Gaza un’offensiva aerea, e successivamente terrestre, con la chiusura di tutti gli accessi per i rifornimenti di derrate alimentari, acqua e luce alla popolazione della Striscia di Gaza, e poi ha interrotto tutte le connessioni internet su tutto il territorio per produrre un blackout mediatico, la stessa Presidente della Commissione Europea dichiarava che l’Europa avrebbe dato il sostegno incondizionato a Israele, senza se e senza ma, perché ha “il diritto di difendersi”. 

Oltre 2,3 milioni di palestinesi vivono nella Striscia di Gaza, e più di un milione di abitanti sono stati costretti a lasciare le loro case nella regione a nord per rifugiarsi a sud, dichiarato da Israele come posto sicuro. In realtà, poi, diversi media locali hanno dimostrato che anche il sud non era sicuro, perché colpito diverse volte dai raid israeliani. In 48 giorni di bombardamenti continui, dal 7 ottobre al 24 novembre, quando cioè è entrata in vigore la tregua tra Israele e Hamas, prorogata due volte, sono state uccise 15 mila persone, di cui oltre 6 mila sono bambini, secondo quanto dichiarato dal ministero della sanità palestinese.

Sul fronte israeliano, le autorità governative avevano dichiarato che le vittime di Hamas del 7 ottobre erano 1400 persone. Dopo i dovuti controlli, ad oggi il numero dei morti israeliani è sceso a 1200 persone.

Non è facile scrivere dei morti, non sono solo dei numeri, hanno nomi e cognomi, un’età e una storia. Una storia che è stata interrotta, su entrambi i fronti. Ma nessuna violenza giustifica altra violenza, repressione, pulizia etnica e addirittura genocidio, come quello che sta avvenendo nella Striscia di Gaza.

Medici Senza Frontiere denuncia sui propri canali social che anche i territori della Cisgiordania stanno vivendo un aumento delle violenze nei confronti della popolazione civile sin dal 7 ottobre: l’ospedale di Jenin viene colpito due o tre volte al giorno, riceve molti casi in codice rosso (molto critici), i pazienti che arrivano per le cure presentano ferite da arma da fuoco alle gambe e all’addome, colpiti dai cecchini israeliani. Secondo Al Jazeera, i morti in Cisgiordania dal 7 ottobre sono più di 200 civili.

In queste settimane di guerra a Gaza, attraverso il web, il mondo intero ha potuto guardare quasi in tempo reale gli attacchi all’ospedale al-Shifa nella città di Gaza e la sua occupazione da parte dell’esercito di difesa israeliano (IDF), che in un video mostra la bandiera issata sulla terrazza del palazzo, come se si trattasse di una fortezza strappata ai nemici. Pochi giorni prima degli scontri, era stata tagliata l’energia elettrica all’ospedale, le incubatrici si sono spente, e una decina di neonati prematuri sono morti asfissiati. Il mondo intero è rimasto a guardare nel silenzio degli innocenti.

L’Abu Ghraib palestinese

Sul web sono stati diffusi alcuni video da parte dei soldati israeliani sul trattamento che hanno riservato ad alcuni prigionieri palestinesi, incappucciati, denudati, umiliati e picchiati, tra le risate degli astanti. Questo fenomeno era presente anche prima di questo conflitto, ma Haaretz, il quotidiano israeliano oppositore al governo di Netanyahu, denuncia l’aumento di questa tendenza tra i soldati dell’IDF, che fieramente documentano e postano online le loro gesta. Un video su Instagram mostra i soldati mentre fanno salire alcuni prigionieri palestinesi denudati e ammanettati su una corriera mentre uno degli israeliani grida in arabo khanzir (maiale).

Queste scene di totale umiliazione dell’altro, del prigioniero, dell’arabo, del musulmano, violano la dignità personale e tutte le convenzioni sui diritti umani. Abbiamo già assistito a questo genere di disumanizzazione: ripercorrono le atrocità compiute in passato dai soldati statunitensi ad Abu Ghraib, le torture inflitte ad alcuni prigionieri iracheni dopo l’invasione degli USA del 2003: abusi fisici e sessuali, stupri, torture e a volte morte; di queste violenze le foto hanno fatto il giro del mondo, mostrando una profonda falla all’interno del sistema militare statunitense. 

Prima di queste immagini dell’Abu Ghraib palestinese, il presidente degli USA Biden aveva ammonito Netanyahu di non fare gli stessi errori che gli Stati Uniti avevano compiuto in Afghanistan e in Iraq. Ma in questa vicenda stiamo assistendo a una storia che si ripete imperterrita e nemmeno l’organismo internazionale nato nel Secondo dopoguerra per prevenire le guerre nel mondo, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, è stato capace di intervenire per mettere un freno a questa assurda guerra che ogni giorno miete centinaia di civili, soprattutto bambini, cancellando le future generazioni della Palestina.

Uno scontro di civiltà o regime di apartheid?

In questa guerra, diversi media occidentali hanno tentato di presentare la questione come uno scontro di civiltà: l’Islam contro l’Occidente democratico, ma questa non è una guerra di Israele contro Hamas, è tutto il popolo palestinese che è oppresso e che resiste. Se si analizza adeguatamente il contesto culturale e sociale dei territori in questione, si può notare che tra i palestinesi non solo i musulmani sono colpiti e uccisi, anche gli arabi cristiani che vivono a Gaza sono sotto attacco. Ancora sul web sono stati postati alcuni video di battesimi di massa che i palestinesi cristiani disperati svolgevano a Gaza perché spaventati che i loro figli potessero morire improvvisamente sotto le bombe israeliane senza essersi battezzati. 

Di conseguenza, non si tratta di un conflitto tra civiltà, le vittime sacrificali sono i civili palestinesi, senza alcuna distinzione di sesso, età, status sociale, religione o altro. Mentre sui media italiani si è restii a dichiarare che Israele sta compiendo un genocidio e attuando da anni un regime di apartheid all’interno della Striscia, alcuni professori universitari israeliani hanno il coraggio di chiamare col vero nome ciò a cui il mondo sta assistendo inerme. 

L’israeliano Raz Segal, Professore all’università di Stockton ed esperto di olocausto e moderni genocidi, dichiara all’emittente indipendente Democracy Now! che ciò che sta accadendo a Gaza è un chiaro “caso da manuale di genocidio”: “la Convenzione ONU del 1948 sulla prevenzione e punizione del reato di genocidio prevede un intento preciso di distruggere un gruppo definito come razzale, etnico, religioso o nazionale come collettività e non come individui. E questo intento come abbiamo visto è stato pienamente dimostrato dai politici israeliani”, come nel caso del ministro della difesa Yoav Gallant, che il 9 ottobre dichiarava il completo assedio di Gaza e il taglio di acqua, cibo e carburante, con la giustificazione che stavano combattendo contro animali umani.  

Lo stesso ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, su rete4, ha dichiarato senza mezzi termini che lo scopo di Israele è: “distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”.

Una tregua o un cessate il fuoco

Nonostante le continue denunce da parte di organismi internazionali dei crimini contro l’umanità commessi da Israele sulla popolazione palestinese, nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania, tra cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite, Amnesty International e Medici Senza Frontiere, non si è riusciti ad ottenere un definitivo cessate il fuoco. Il 26 ottobre è stata votata la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per chiedere l’immediata e durevole tregua umanitaria a Gaza, con 120 voti favorevoli, 14 contrari e 45 astenuti (tra cui l’Italia).

Il 15 novembre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu è passata una risoluzione che chiedeva alcune “pause umanitarie” a Gaza per aprire dei corridoi per i civili palestinesi sotto assedio e per richiedere il rilascio degli ostaggi israeliani: gli Stati che hanno partecipato alle votazioni si sono concentrati sui termini da utilizzate (“pausa umanitaria” o “cessate il fuoco”?) piuttosto che sulla popolazione bombardata. 

Finite queste brevissime pause umanitarie di poche ore al giorno, dopo una serie di recenti trattative tra Israele e Hamas, mediate da Qatar ed Egitto, si è giunti a una tregua di 4 giorni, iniziata effettivamente il 24 novembre e prorogata fino alla mattina del 1 dicembre, che ha previsto il rilascio di alcuni prigionieri da ambo le parti: 50 israeliani in cambio di 150 palestinesi, donne e bambini. Ciò che fa riflettere di questo scambio tra prigionieri è il fatto che, se il 7 ottobre Hamas ha catturato più di 200 israeliani senza tenere conto del genere e dell’età, Israele, dal canto suo, detiene nelle sue carceri 200 minorenni fra 12 e 17 anni, alcuni dei quali arrestati dopo il 7 ottobre senza un’accusa formale. Da anni le organizzazioni non governative denunciano le condizioni disumane in cui sono detenuti: Save the Children riporta che questi minori vengono arrestati nella notte e diventano oggetto di torture, abusi psicologici e fisici, e sono costretti a settimane di isolamento

In questi 59 giorni dall’inizio del conflitto, “l’unica democrazia del Medioriente”, come viene definita dai mezzi di comunicazione e dai politici occidentali, si è dimostrata per ciò che è realmente e i social media hanno avuto il merito di mostrarlo al mondo intero: uno Stato incapace di contenere la sua rabbia e vendetta, che ha messo sotto assedio tutta la Striscia di Gaza con i suoi 2,3 milioni di abitanti, che ha bombardato giornalmente per 48 giorni case, ospedali, scuole, causando più di 15 mila morti, di cui oltre 6 mila bambini, e nei territori occupati della Cisgiordania più di 200 morti, di questi 50 sono bambini.

Un paese “democratico” non chiude l’acqua, i rifornimenti di cibo, la corrente elettrica e il carburante a una popolazione chiusa in una scatola di latta estesa 365 km2, costringendo gli ospedali a staccare le incubatrici con i neonati in fin di vita e a operare senza anestesia i feriti, che se non muoiono sotto le bombe rischiano di morire sotto i ferri.