Confutare le gravi falsità storiche e le teorie neonaziste del complotto di Silvana di Mari su La Verità

In un recente editoriale pubblicato da La Verità, l’autrice Silvana di Mari propone due teorie strampalate  con l’obiettivo di contribuire alla demonizzazione dei palestinesi. Le sue tesi sono due: il Profeta Muhammad avrebbe fatto un genocidio degli ebrei e Hitler fu vittima del Mufti di Gerusalemme al-Hussayni che sarebbe stata la vera mente dell’olocausto. In questa pubblicazione confutiamo con forza, riferimenti e semplicità queste diffamazioni e  falsi storici che trovano le sue origini nella propaganda sionista apartheidista e colonizzatrice da un lato e nelle teorie del complotto neonaziste dall’altro.

No, il Profeta Muhammad non uccise gli ebrei perché adirato dal rifiuto della sua missione profetica da una parte di essi

Gli ebrei non furono uccisi dal Profeta Muhammad perché ‘’adirato’’ di non essere stato accettato come Messia. In effetti ci furono conversioni importanti fra gli ebrei ed al suo arrivo a Medina il Profeta istitutì una costituzione che sanciva la protezione degli ebrei come popolo vicino al monoteismo islamico rispetto al politeismo arabo del tempo che era predominante.

Gli ebrei però videro nel ruolo di governante del Profeta una minaccia ai loro interessi politici ed economici a Medina e per questo violarono gravemente le condizione della costituzione per ben due volte molestando sessualmente le credenti musulmane ed alleandosi con i politeisti. Fu la terza volta che risultò nella punizione più severa per gli ebrei di Medina. Durante l’assedio più grave e pericoloso per la neo comunità islamica – quello di Khandaq – con i politeisti alle porte ed il rischio della fine del progetto islamico, gli ebrei decisero di allearsi con i politeisti militarmente attaccando dall’interno delle mura di medina i musulmani che però presero in contropiede l’assalto interno degli ebrei. Gli ebrei tentarono anche di uccidere il Profeta stesso lanciando un macigno dalle mura della loro fortezza.

Una serie di casi come l’arrivo di una tempesta e la conversione all’islam di uno degli arabi nell’esercito dei politeisti permise ai musulmani di respingere gli arabi e voltarsi verso gli ebrei per la resa dei conti. E nei primi due casi gli ebrei che violarono il trattato furono cacciati in questo caso i combattenti furono giustiziati, mentre i non combattenti divennero prigionieri di guerra. E’ importante notare che questa punizione non fu scelta dal Profeta ma da uno dei mediatori scelti dagli ebrei stessi che sapendo della gravità del loro tradimento sperarono in un giudizio meno severo da parte del mediatore. Così non fu e gli ebrei che tradirono il trattarono ne pagarono le conseguenze.

No, l’olocausto non fu provocato dall’Islam o da un musulmano ed Hitler non fu vittima del massacro scientifico degli ebrei

Un’altra grave menzogna proposta de Mari è quello secondo la quale l’emiro di Gerusalemme Tahir al-Hussayni II fu la vera mente dietro lo sterminio degli ebrei. L’olocausto sarebbe così da attribuire ad un musulmano che avrebbe lavato il cervello a Hitler che in questa visione distorta dei fatti diviene vittima e la cui colpa è solo quella di aver voluto risolvere un problema in modo ‘’pratico’’.

Con questa fake news sulla presunta influenza dell’imam Tahir Hussayni su Hitler, Silvana de Mari sprofonda nel complottismo neonazista più becero e pericoloso arrivando a giustificare l’intenzione di Hilter di cacciare gli ebrei come ‘’tatticismo’’ e non come parte di una strategie di sterminio e pulizia etnica scientifica e sistemica come i fatti storici dimostrano ampiamente. Per nominarne uno, è lo stesso Ilan Pappe a confutare quello che egli stesso definisce come uno dei miti fondanti di Israele promosso da sionisti e che altro non è che mito, appunto, e falso storico. Ecco cosa dice Pappe a proposito di Tahir Hussayni, il fu mufti di Gerusalemme.

‘’I leader locali realizzarono presto che un tale insediamento non poteva che avere ripercussioni negative sulla loro società. Una di queste figure era il mufti di Gerusalemme, Tahir al-Hussayni II, che vedeva l’immigrazione ebraica a Gerusalemme come l’ennesimo affronto europeo alla santità musulmana della città. Alcuni dei leader più anziani avevano già notato che era stata un’idea di James Finn quella di associare l’arrivo degli ebrei al ripristino della gloria crociata. Non c’è da stupirsi, quindi, che il mufti si opponesse fermamente a un tale progetto di insediamento, facendo pressione per evitare la vendita dei terreni palestinesi ai coloni ebrei. Capì che possedere i terreni avrebbe reso più semplice rivendicarne la proprietà; al contrario, l’immigrazione transitoria senza l’acquisto di terreni e quindi di insediamenti poteva essere considerata come semplice pellegrinaggio’’.

In un altro passaggio rilevante il quadro storico è chiaramente completato da Pappe che confuta questo mito sionista anti-islamico:

‘’A questo punto pare legittimo descrivere il sionismo come un progetto coloniale di insediamento e il movimento nazionale palestinese come un fenomeno di resistenza anticoloniale. In questo contesto possiamo leggere da una prospettiva diversa il comportamento e le politiche del leader della comunità, Hajj Amin al-Husayni, prima e durante la seconda guerra mondiale, rispetto alla narrazione normalmente presentata come fatto storico. Come molti lettori sapranno, una delle accuse comuni ribadite all’infinito dagli israeliani è che il leader palestinese fosse un simpatizzante del nazismo. Certo, il mufti di Gerusalemme non era un angelo. In tenera età fu scelto dai notabili palestinesi e dagli inglesi per assumere la più importante carica religiosa della comunità, che ricoprì per tutto il periodo mandatario (1922-48), giovandosi di potere politico e di una posizione sociale elevata. Tentò quindi di guidare la comunità di fronte alla colonizzazione sionista e, mentre negli anni ’30 altri leader come Izz al-Din al-Qassam spingevano per la lotta armata, riuscì comunque a tenere la maggioranza palestinese lontana da questa deriva violenta.

Tuttavia, quando sostenne apertamente metodi non violenti come scioperi, manifestazioni e altre azioni mirate a modificare la posizione britannica, venne additato come nemico dell’impero e dovette fuggire da Gerusalemme nel 1938. Queste circostanze lo costrinsero a dirigersi tra le braccia dei nemici dei suoi nemici, in questo caso Italia e Germania. Nei due anni in cui visse in asilo politico in Germania subì l’influenza della dottrina nazista, e anche lui confuse la definizione di ebraismo con quella di sionismo. La sua disponibilità a servire come commentatore radiofonico per i nazisti e ad aiutare a reclutare musulmani nei Balcani per lo sforzo bellico tedesco è sicuramente una macchia indelebile sulla sua figura. Tuttavia, al-Husayni non agì in modo diverso dai leader sionisti degli anni ’30, che cercavano essi stessi un’alleanza con i nazisti contro l’impero britannico, o da tutti gli altri movimenti anticoloniali che volevano sbarazzarsi dell’impero attraverso alleanze con i suoi principali nemici.

Quando la guerra finì, nel 1945, il mufti tornò in sé e cercò di organizzare i palestinesi alla vigilia della Nakba, ma ormai era troppo tardi e il mondo a cui apparteneva, quello dei notabili arabi ottomani di città, non esisteva più. Pertanto, seppure la sua figura meriti critiche, queste non si devono ai suoi errori nei confronti del sionismo, ma piuttosto alla sua mancanza di empatia nei confronti della difficile situazione dei contadini palestinesi e ai suoi disaccordi con altri notabili, che contribuirono a indebolire fortemente il movimento anticoloniale. Nulla di ciò che ha fatto giustifica il suo inserimento nel progetto sionista americano dell’Enciclopedia dell’Olocausto con una descrizione seconda per lunghezza solo a quella di Hitler.

In definitiva, né i suoi errori né i suoi successi hanno avuto un grande impatto sul corso della storia palestinese. Fu assolto dalle accuse di crimini di guerra dagli alleati e, alla fine del conflitto, gli fu permesso di tornare in Egitto, ma non in Palestina. Pur con le sue colpe, prima di fuggire dalla Palestina nel 1938 e in certa misura anche dopo il suo esilio guidò un movimento di liberazione anticoloniale. Non è di per sé rilevante il fatto che fosse un mufti, un uomo di fede che credeva che anche la religione potesse giocare una parte nella lotta contro il progetto coloniale con mire espansionistiche sulla sua patria, che minacciava l’esistenza del suo popolo. Altri movimenti anticoloniali come il Fronte di liberazione nazionale in Algeria avevano un forte legame con l’islam, così come molti movimenti di liberazione nel mondo arabo che lottarono per l’indipendenza dall’Italia, dalla Gran Bretagna e dalla Francia dopo la seconda guerra mondiale.

Nemmeno l’approvazione dell’utilizzo di mezzi violenti da parte del mufti o di altri leader come al-Qassam (ucciso dagli inglesi nel 1935 e sepolto vicino a Haifa) fu un caso unico nella storia delle lotte anticoloniali. I movimenti di liberazione in Sud America e nel Sud-Est asiatico non erano organizzazioni pacifiste e riponevano la loro fiducia nella lotta armata tanto quanto nel processo politico. Se il mufti fosse stato in grado di tornare in Palestina si sarebbe reso conto non solo che il sionismo era un progetto coloniale di successo, ma soprattutto che era alle soglie di uno spartiacque cruciale. Nel 1945 il sionismo aveva attratto più di mezzo milione di coloni in un paese la cui popolazione si aggirava intorno ai due milioni di persone. Alcuni arrivarono con il permesso del governo mandatario, altri senza. La popolazione indigena locale non fu mai consultata, né fu presa in considerazione la sua obiezione al progetto di trasformare la Palestina in uno stato ebraico. I coloni erano riusciti, così, a costruire uno Stato nello Stato – con tutte le infrastrutture necessarie – ma avevano fallito sotto due aspetti. Erano riusciti a comprare solo il sette percento della terra, che di certo non sarebbe stato sufficiente per un futuro Stato, ed erano ancora una minoranza, solo un terzo della popolazione in un paese in cui ambivano a essere il popolo esclusivo. Come per tutti i precedenti casi in cui si osserva un colonialismo di insediamento, la risposta a questi problemi era la duplice logica dell’eliminazione e della disumanizzazione.

L’unico modo per i coloni di espandere la presa sulla terra oltre il sette percento e di garantire una maggioranza demografica ebraica era quello di rimuovere gli indigeni dalla loro patria. È per questo che il sionismo è da considerare un progetto coloniale di insediamento, per quanto ancora non definitivamente compiuto. La Palestina non è interamente ebraica a livello demografico e, sebbene Israele ne controlli politicamente tutto il territorio con vari mezzi, il processo di colonizzazione continua – attraverso la costruzione di nuove colonie in Galilea, nel Naqab (Negev) e in Cisgiordania in modo da aumentare il numero di ebrei in queste zone – espropriando i palestinesi e negando il loro diritto alla terra.’’

Riferimenti:

Ibn Kahir, Al bidaya wal nihaya

Lings M. (2006), Muhammad: his life based on the earliest sources, Inner  traditions

Pappe I. (2017), 10 miti su Israele, Traduzione di Stagni F. (2022), Tamu Edizioni

Sahih al Bukhari

Sunan Abu Dawud