Cosa dice la sentenza della Consulta che stronca la legge anti-moschee della Lombardia

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 72, commi 2 e 5 della legge Regionale “anti-moschee” della Lombardia. Secondo la Consulta infatti “la regione può gestire lo sviluppo armonico del territorio ma non può ostacolare l’esercizio del culto”, cosa che secondo gli alti magistrati invece ha fatto fino ad oggi. La sentenza nasce dal ricorso dell’associazione islamica Ticinese e dal successivo intervento dell’associazione islamica di Cantù. 
A Cantù, un comune del comasco di 40.000 abitanti di cui il 10% sono cittadini stranieri, è in questa cittadina brianzola, tra le capitali italiane del mobile che in parte muore la legge anti-moschee della Regione Lombardia.
Perchè Cantù è un feudo leghista, presidiato dal fido Nicola Molteni, a cui Salvini ha anche affidato la gestione reale del Ministero dell’Interno mentre lui era impegnato in comizi e dirette Facebook e in quanto roccaforte leghista, l’indicazione è sempre stata chiara: la moschea a Cantù non s’ha da fare.
I musulmani di Cantù dell’Associazione Assalam però, dopo aver acquisito un capannone in zona industriale lo hanno adibito a centro culturale islamico e in questi anni hanno pazientemente e coraggiosamente fatto fronte alle minacce e ai provvedimenti delle amministrazioni leghiste che sono giunte fino al punto decretare l’acquisizione a patrimonio comunale, ovvero l’esproprio, dell’immobile di via Milano.
Ora per quel contenzioso sono intervenuti nel ricorso sollevato dall’Associazione Islamica Ticinese in cui il TAR ha sollevato delle questioni di costituzionalità che sono state accolte dalla Consulta che ha emesso una sentenza destinata a produrre effetti vasti e prolungati sulla situazione del diritto di culto in Lombardia e non solo, anche il Veneto e la Liguria si sono dotate di leggi fac-simile. 
Quella di Cantù è nei fatti una vicenda emblematica della situazione di sostanziale negazione del diritto di culto, decine di comunità islamiche locali, centri culturali islamici, luoghi di preghiera informali hanno vissuto in questi anni in uno stato di conflittualità politica e legale continua per cercare di garantire un servizio per un diritto che dovrebbe essere garantito senza limiti.
Con la sentenza emessa il 5 dicembre la massima Corte stabilisce che la necessità del piano delle attrezzature religiose, solo in relazione all’esercizio del culto, senza alcuna distinzione tra attività svolta in forma privata o aperta al pubblico, o senza valutare l’incidenza del carico urbanistico, ostacola la libertà di religione  e che prevedere che il piano per le attrezzature religiose possa essere approvato solo con la revisione del P.G.T. genera un’eccessiva incertezza e discrezionalità in relazione ad un diritto fondamentale. 
La legge in questione era già stata parzialmente bocciata dalla Consulta nel 2016 sulla scorta del conflitto di attribuzione sollevato dal Governo su richiesta di numerosi attori con i prima linea il Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano ( CAIM), la corte però in quell’occasione non era entrata nel merito delle altre disposizioni della legge regionale. 
Cosa dice esattamente la sentenza della Corte Costituzionale

La Corte parte dal presupposto costituzionale secondo cui “la libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione.” Continua poi  sottolineando la valenza di positiva della laicità e quindi non una indifferenza dello Stato nei confronti della religione ma come un sostegno della massima espressione della libertà religiosa di tutti. 

La sentenza procede rilevando che il libero esercizio del culto “è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce” e che in quest’ottica va tutelato “L’esercizio pubblico e comunitario del culto” e che va tutelato “ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato.”

La libertà di culto quindi secondo la Corte si traduce nel diritto di disporre di spazi e il ruolo delle autorità pubbliche competenti è duplice: in positivo, agire per prevedere e fornire spazi per il culto e in negativo, non frappore ostacoli ingiustificati all’estercizio del culto

La legge della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 , riservava alle attrezzature religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse comune e prevedeva, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro realizzazione e manutenzione e la Corte Costituzionale con una sua sentenza del 2002 ha stabilito che questi contributi spettano a tutte le confessioni con o senza intesa. 

Un’altro punto fondamentale ribadito dalla Corte Costituzionale è che, come su questo giornale aveva spiegato la Prof. Chiara Sebastiani, le regioni possono trattare le questioni religiose sono nei loro aspetti prettamente urbanistici e “In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto” non devono travalicare questo limite rendendo difficile se non quando possibile la realizzazione dei luoghi di preghiera. 

L’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, prevede che la realizzazione di un qualsiasi luogo di culto sia subordinato all’approvazione del PAR, il Piano per le Attrezzature Religiose di cui recentemente Milano si è dotata ,

PAR mancante che era stato tra le motivazioni addotte dalla giunta Sala per annulare il bando sui luoghi di culto che avrebbe permesso la costruzione di una moschea a Milano, per i giudici, questa norma fa si che ” anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR” mentre qualsiasi altra attività associativa purchè non religiosa possa svolgersi ovunque senza vincoli. Pertanto questa norma entra in conflitto con le condizioni costituzionali che la Corte ha previamente elencato. 

Oltre a ciò c’è un altro aspetto che la sentenza provvede a trattare e a censurare: il fatto che il PAR debba essere approvato contestualmente al PGT ( Piano di Governo del Territorio) che è lo strumento di pianificazione urbanistica dei comuni ma che non ha nessuna specifica cadenza temporale, quindi le amministrazioni godono di ampia discrezionalità in merito. Secondo la Consulta questo ostacola ulteriormente il diritto di culto.

Anche perchè per gli altri impianti di interesse pubblico la legge non richiede una variante generale al PGT e non richieda nemmeno sempre la procedura di variante parziale, lagge infatti afferma: “la realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale”. Pertanto secondo la sentenza della Consulta ci si trova di fronte ad una disparità di trattamento inammissibile comprensibile solo alla luce dell’intenzione di gravare l’esercizio del culto di condizioni ostacolanti. 

L’avvocato Vincenzo Latorraca che rappresenta l’Associazione Assalam di Cantù ha espresso soddisfazione per l’esito del ricorso e ha  dichiarato a La Luce: I passaggi della Corte sono chiari e assolutamente lineari: la legge regionale, in relazione ai luoghi di culto, come in relazione a tutte le attività umane, può prevedere che, sotto il profilo urbanistico, sia disciplinato lo sviluppo armonico del territorio, ma non può ostacolare l’esercizio del culto o prevedere la necessità del piano delle attrezzature religiose, solo in relazione all’esercizio del culto, senza alcuna distinzione tra attività svolta in forma privata o aperta al pubblico, o senza valutare l’incidenza del carico urbanistico, ostacola la libertà di religione. Inoltre prevedendo che il piano per le attrezzature religiose possa essere approvato solo con la revisione del P.G.T., la legge non consente di determinare un termine prevedibile entro cui le amministrazione individuano le aree per l’insediamento di edifici destinati al culto.”

Questa sentenza fa chiarezza su quali sono i limiti e le prerogative delle regioni in ambito di regolazione del diritto di culto, oggi prerogative molto ristrette e stabilisce che l’approvazione del PAR e la conseguente revisione del PGT non siano più una precondizione per la realizzazione di luoghi di culto in Lombardia affermano ciò che la Costituzione aveva sancito da sempre nell’Art.20 e cioè che: “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.”

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