Le moschee italiane nei Qatar papers, cosa c’è di vero?

Nell’aprile di quest’anno esce in Francia “Qatar Papers”, un libro a firma di Christian Chesnot e Georges Malbrunot, due giornalisti piuttosto noti in Francia, che denuncia l’azione di Doha nel finanziamento di numerose associazioni islamiche in Europa e segnatamente in Italia e Francia. La tesi sostenuta è che attraverso questi finanziamenti si tenda alla penetrazione dell’ideologia islamica in Italia e, in particolare quella dei Fratelli Musulmani, dipinti come minaccia potenziale della sicurezza nel vecchio continente.

La vicenda mediatico-politica che ne deriva s’inserisce in Italia nella dinamica ondivaga di una politica estera nazionale che cerca di tutelare alcuni interessi industriale e commerciali senza tuttavia essere pienamente in grado di esprimere reale autonomia.

La realtà è che negli anni scorsi Qatar Charity, una fondazione benefica basata nella capitale dell’emirato si è spesa con una certa generosità nel nostro Paese, come del resto in molti altri dell’Europa occidentale, per sostenere le comunità locali che perseguivano progetti di edificazione o, nella maggior parte dei casi, ristrutturazione e adattamento, di locali capaci di rispondere alle esigenze del culto islamico in Italia,

In tre, quattro anni grazie a questi generosi contributi (mediamente il 40% a quel che sostiene il testo francese), e allo sforzo degli stessi frequentatori, alcune comunità locali sono riuscite ad acquisire e rendere idonei una trentina di immobili, che sono rimasti sempre e comunque di loro proprietà e senza che i qatarini abbiamo mai chiesto altra contropartita se non una targa, scoperta in occasione della loro inaugurazione, che testimoniasse il loro apporto.

Mediatori e facilitatori di questa operazione, l’UCOII, (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), una delle più antiche e diffusa organizzazione dei musulmani in Italia che insiste sull’insieme del territorio nazionale e conta nelle sue file alcune delle associazioni locali più attive e rappresentative.

La dinamica era questa: le comunità esponevano il progetto all’UCOII che attraverso suoi emissari verificava la loro congruità e le presentava alla Qatar Charity che presa visione dei documenti e dei luoghi disponeva un finanziamento a fondo perduto che veniva poi veicolato tramite la stessa Unione ai destinatari.

In tal modo, da Saronno a Lecce, da Mirandola a Catania (solo per citare alcuni esempi alcine decine di milioni di euro hanno contribuito alla dignità del culto e della cultura islamica in un Paese che oggi conta 2,5 milioni di fedeli, oltre un milione dei quali cittadini italiani per conversione o naturalizzazione.

Questa in buona sostanza la vicenda reale, che tuttavia spesso non si è sviluppata nella maniera più serena, sia per il clima di islamofobia di questi anni che per l’avvelenata conseguente ad un episodio di sospetta malversazione che è oggetto di un processo davanti ai giudici del Tribunale di Bergamo.

In quel caso infatti, il finanziamento deciso a favore del Centro Islamico della città fu dirottato dal presidente Imad Jilani, verso un’altro soggetto da lui costituito insieme ai suoi familiari. Da notizie in nostro possesso un primo grado giudiziario dovrebbe concludersi entro poche settimane. 

La stampa mainstream e alcune forze politiche hanno cavalcato una dinamica, nella stragrande parte dei casi serena, denunciando pericoli di invasione islamica e di subordinazione della comunità stesse al Governo di Doha, senza peraltro presentare alcuna prova in merito se non che tali comunità fossero in qualche maniera parte della tendenza riformista islamica della Fratellanza Musulmana.

Questo il punto focale della questione: un movimento trasnazionale radicato in Europa e negli States che trae la sua origine dalla predicazione di Hassan El Banna nella prima metà dei secolo scorso (Al Banna fu assassinato nel 1949) che proponeva una visione nuova e progressiva dell’impegno dei musulmani nelle loro rispettive società, con una forte caratterizzazione anticoloniale e solidale. 

Il movimento si sviluppò in tutto il mondo islamico, anche non arabofono e oggi sono molte centinaia di milioni i musulmani, che in grado e modo diverso hanno assunto quella predicazione e dinamica come faro e orientamento del loro impegno etico-spirituale e civile.

Va da se che escludendo la via della violenza settaria e muovendosi sul piano della formazione, della solidarietà essi hanno costituito e costituiscono la maggiore minaccia per le dispotiche oligarchie petrolifere e/o militari che governano una gran parte degli Stati abitati in grande maggioranza da musulmani e contro di loro si sono mosse azioni repressive di ogni genere, lautamente finanziate da quelle stesse oligarchie e politicamente protette a livello internazionale dagli apparati d’intelligence occidentali.

Il Qatar, unico tra gli Stati mediorientali, ha rappresentato in questi anni un’eccezione, per lo sforzo nel campo culturale (vedi https://www.cilecenter.org/ ) e per la sua opposizione alla tendenza wahhabita che fino a pochi mesi fa era incontrastata dottrina veicolata dall’Arabia Saudita e i suoi alleati regionali, con abbondanza di mezzi, media, pubblicazioni e predicatori in audio-video ed itineranti.

Quale che sia l’influenza dell’ideologia Ikwan (maniera di indicare la tendenza dei Fratelli Musulmani) è reso evidente dal fatto che lo shaikh Yusuf al-Qaradawi, uno dei discepoli del Banna, è stato per decenni rettore dell’Università islamica del Qatar, star mediatica di Al Jazira sui cui schermi ha veicolato una visione dell’Islam compatibile con i valori e le istituzioni occidentali, dialogante e tollerante, capace di adattare, nel rigore etico e dottrinale, la giurisprudenza islamica alle esigenze di una società musulmana in profonda crisi e tuttavia desiderosa di accettare la sfida della contemporaneità.

La tempesta politica delle cosiddette “primavere arabe” dall’Egitto allo Yemen ha dato ampiezza e visibilità ad un movimento che poteva realmente impensierire i despoti del Golfo e i loro alleati, in un quadrante geo-strategico ed economico il cui controllo era ritenuto ineludibile per le sue risorse energetiche.

Oggi quello che è rimasto di quel movimento che fu salutato in Occidente in modo positivo è la destabilizzazione dell’intero settore, la guerra fratricida in Yemen, la tragedia siriana, lo devastazione libica, senza contare quella irachena. Un panorama desolante di cui gli stessi attori locali sono stati in parte responsabili per mancanza di visione complessiva, approssimazione nei metodi e la sostanziale mancanza di una società civile capace di far dialogare tra loro le componenti più coscienti ed efficienti.

In questo quadro internazionale la vicenda del sostegno ai musulmani d’Italia, viene enfatizzato e ogni centro di culto viene dipinto come un cavallo di Troia della penetrazione islamica da parte del Qatar, ricco, è vero, ma grande poco più che l’Abruzzo e con una popolazione di poco superiore a quella della Calabria e su cui insiste la più grande base anglo-americana in Medio Oriente (11mila effettivi e oltre 100 aerei operativi).

Sarebbe grottesco se non fosse il segno della malafede prezzolata di molto del nostro giornalismo e di molta politica.

Altro elemento su cui si voluto focalizzare l’attenzione ostile al Qatar è la sua alleanza con la Turchia, che da parte sua ha anch’essa una base militare nella penisola e che si è opposta all’embargo decretato dai sauditi e i loro alleati nel giugno 2017 e il basso profilo tenuto da Doha nella polemica anti iraniana e anti sciita.

I Qatar papers vengono pubblicati, in Francia, in un momento che vede l’azione di Parigi in Libia, in aperto contrasto agli interessi italiani e tende a mettere in difficoltà il governo Conte, con il premier in visita ufficiale a Doha, accusandolo di acquiescenza o addirittura complicità con le tendenze “radicali” islamiche che sarebbero sponsorizzate da Doha, e questo in cambio di sostanziosi contratti per la fornitura di armi all’emirato. 

In tutto questo tourbillon politico-affaristico la comunità islamica italiana rischia di fare la fine del vaso di coccio, ma si sa, nel coccio si cucina meglio che nell’acciaio, più lentamente, ma con più gusto e sostanza.

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