Perché due milioni di persone hanno lasciato il Sud in 20 anni? Non è solo l’economia il problema

In territori in cui le tradizioni popolari ancora sussistono, si assiste a uno spopolamento, graduale e forse irreversibile. Impossibile da spiegare a partire dal solo paradigma economico, dietro il quale arranca come sempre la retorica politica.

Sulla scia dei dati del Rapporto Svimez si riaccende infatti l’annoso dibattito legato all’arretratezza del Sud Italia, dove è in atto una costante diminuzione dell’occupazione lavorativa a cui si accompagna una crescente emigrazione, che concerne soprattutto la popolazione giovanile.

Si legge infatti che “si allarga il gap occupazionale tra Nord e Sud, che più di due milioni di residenti negli ultimi vent’anni hanno lasciato il Meridione, dove si assiste anche ad una graduale calo delle nascite.”

A partire da questi dati, i politici tessono i loro discorsi intorno a parole consunte come istruzione e innovazione, ambiente e lavoro, disuguaglianze e investimenti. La superficie del dibattito ruota intorno a numeri, frutto di statistica, trasformati poi in parole da propaganda politica. Insomma passato ridotto in numeri, futuro segnato da parole futuribili, con un presente sempre legato alla stessa inerzia.

Una stasi che spinge gli abitanti del Mezzogiorno a raffigurare la condizione della propria terra come un qualcosa di immutabile, impossibile da cambiare a livello collettivo. L’unica soluzione diventa per molti la fuga e quindi l’emigrazione. E se allora il problema fosse una questione d’immaginario e non solo economico-politica?

È impossibile infatti parlare di questione meridionale, trascurando la dicotomia manicheista che sottende: Nord/Sud. Non si può affermare cosa sia il Sud senza la sua opposizione che lo nega, il Nord. E la stessa cosa non vale nella direzione opposta. Da decenni la semplice parola Sud non denota solo un luogo fisico, ma connota un luogo dell’immaginario; la si associa infatti quasi sempre ad altri sostantivi come problema, questione, riscatto, cioè sempre a qualcosa che indichi una mancanza o comunque un’inferiorità rispetto al concetto opposto.

Da questa prospettiva è forse possibile comprendere coloro che vivono in prima persona lo spopolamento dei propri territori.

C’è poco da fare: chi va via o chi rimane al Sud continua a definirsi attraverso il confronto con il Nord, cosa che non avviene a parti invertite. Si va via alla ricerca di un lavoro decente, ma anche per sfuggire alle maglie protettrici e asfissianti della rete sociale. Si può andar via perché ci si sente sempre provinciali, abitanti di una provincia lontana dal cuore, dell’attività, della civiltà e dello sviluppo. Per poi tornare di tanto in tanto e con l’aria malinconica fissare l’orizzonte come fosse una vecchia casa di campagna abbandonata, con le radici lasciate incolte, paesaggi davanti ai quali si alternano l’amarezza dell’impotenza con l’orgoglio della propria riuscita e del riscatto individuale.

Mentre chi resta spesso sviluppa un’altra forma di orgoglio, il volto di un sentimento di resistenza, che continua a guardare al nord con un senso di diversità irriducibile, a tratti incline all’autocommiserazione, a tratti gelosa e consapevole della propria specificità.

Cambiare prospettiva non ha l’intento di trascurare gli oggettivi fardelli economico-sociali, legati come ovvio anche alla criminalità organizzata, e neanche vuole giustificare il divario tra Meridione e Settentrione. Anche perché c’è ancora un luogo però dove il Sud da periferia diventa spesso centro: nell’immaginario culturale e nelle sue differenti declinazioni. Che sia cinematografico, artistico, culinario o turistico, il Mezzogiorno resta una terra dove si attinge per rifocillarsi con la bellezza naturalistica o con l’autenticità delle tradizioni popolari, ma non solo.

Si va anche per respirare un’aria diversa, quella della contraddizione, in cui le cose non riescono mai a trovare la propria sintesi, come vorrebbe imporre la razionalità, col suo spirito di efficienza e produttività. Generosità e scaltrezza, ironia e violenza, armonia e rumorosità, gusto e sciattezza, spirito anarchico e desiderio dell’uomo forte e del controllo, convivono, anzi si alimentano a vicenda senza riuscire a trovare una propria sintesi.

Così come i due poli dell’immaginario sociale: nord e sud, opposti di una dialettica che si è provato a risolvere attraverso assistenzialismo, assimilazione o separazione, ma che forse vanno ripensati attraverso un linguaggio diverso. Parole nuove per tessere un abito diverso sul corpo di un Meridione che rischia di diventare deserto.

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