Gli italiani vogliono l’uomo forte al comando ma a chiamarlo sarà la crociata contro l’odio

Il Censis ha da poco reso noto che il circa metà degli italiani (il 48%) vorrebbe un uomo forte che guidasse il paese e lo tirasse fuori dal guado. Tra gli operai questo desiderio arriva a addirittura al 62% ed è condiviso dal 56% degli italiani che hanno un reddito basso, ma quando l’uomo forte arriverà ad averlo chiamato saranno stati quelli che conducono la crociata allucinata contro l’odio, il nuovo nemico immaginario.

Secondo il noto centro studi, circa metà degli italiani (il 48%) vorrebbe un uomo forte alla guida del paese, tra gli operai questo desiderio arriva a addirittura al 62% ed è condiviso dal 56% degli italiani che hanno un reddito basso, in sostanza, quella che una volta si sarebbe chiamata la classe operaia è stanca del nostro modello di democrazia partitocratica e vorrebbe, democraticamente, scegliere un uomo col potere reale di risolvere i problemi dell’Italia.

Questa rivelazione però può destare sorpresa solo in chi vive sconnesso dalla realtà quotidiana del paese, una realtà fatta di declino, deindustrializzazione, impoverimento dei ceti popolari, spopolamento del Sud e della provincia, invecchiamento della popolazione e crisi demografica.

É risaputo che gli operai e i ceti popolari in generale, ma anche la media borghesia in via di impoverimento non votano più a sinistra da un pezzo e la crisi di rappresentanza ha prodotto un sentimento populista che altro non è che lo sfogo di un popolo incompreso nelle sue priorità e abbandonato da un ceto politico e da una classe intellettuale distanti.

E dovrebbe essere evidente a tutti che la povertà, il degrado delle condizioni di vita delle periferie delle nostre città e della periferia del paese è ciò che ha prodotto la montata del risentimento sociale, della paura, il bisogno di protezione e come spiega di nuovo il rapporto del Censis un individualismo, e si potrebbe aggiungere un familismo, esasperato come strategie di sopravvivenza. In questo contesto si sono aperti spazi immensi per i discorsi sconnessi che partono da “prima gli italiani” per giungere al “si salvi chi può”.

Ma i sinceri democratici invece, quelli che sono contro l’odio, sono così poco lucidi di non distinguere cause da conseguenze, se ne fossero capaci, capirebbero che la concausa di quello che loro chiamano odio sono loro stessi. Hanno governato il paese per anni preoccupandosi di assecondare i voleri dei poteri finanziari, smantellando poco a poco lo stato sociale e le tutele dei lavoratori, mentre salvavano le banche, aumentavano l’età pensionabile e al contempo tra l’adesione acritica all’euro e alla globalizzazione si sono dimenticati di difendere e di promuovere lo sviluppo industriale del paese, con i risultati che ormai tutti abbiamo sotto gli occhi.

Mentre l’Italia crolla letteralmente sotto il peso del dissesto idrogeologico e dell’incuria e i Benetton continuano a far soldi a palate con le nostre autostrade,  mentre sono aperti 160 tavoli per crisi aziendali, mentre l’Ilva non smette di essere fucina di tumori e grossa incognita per il futuro, mentre l’Istat ci avvisa che siamo nel baratro demografico, i nostri progressisti, paladini dei diritti, non trovano niente di più urgente da fare che lanciare una crociata contro l’odio che sembra un trip.

Si tratta di qualcosa di assolutamente postmoderno e ci conferma quanto anche la politica sia divenuta liquida, e si occupi oggi di oggetti indefiniti, indefinibili e astratti come lo è l’odio in questione, un odio di non si sa bene chi verso chi, capace però di fungere da catalizzatore di questa grande allucinazione collettiva, partita con la fake news sui 200 attacchi al giorno alla senatrice Segre e proseguita in un crescendo di polemiche incredibili su cittadinanze onorarie date e negate per culminare nella marcia dei sindaci di ieri, sempre tutti contro l’odio e per la Segre.

La marcia non a caso si è svolta a Milano la capitale della post modernità italiana, una città distante dal paese e sempre più tronfiamente autoreferenziale, che in questi ultimi giorni è stata protagonista della prima della Scala. L’evento ha sostituito la festa dell’Unità nei riferimenti dei progressisti nostrani, un’occasione assolutamente popolare, alla portata di tutti dove si è osannato il nuovo leader dei diseredati, il Presidente Mattarella, dove han fatto presenza l’immancabile senatrice Segre e Beppe Sala, il sindaco più arcobaleno d’Italia, il tutto corredato dai titoli entusiasti dei grandi giornali.

Ora se facciamo un paragone con le piazza francesi che bollono di rabbia da un anno e ora sono teatro dei grandi scioperi contro le riforme di Macron e se pensiamo che il loro welfare, il loro salario minimo e i diritti di cui godono i lavoratori per noi sono un miraggio, capiamo quanto siamo messi male. Le nostre piazze sono piene di sardine disorientate e di sindaci precettati a Milano per sconfiggere un nemico impalpabile, immaginario.

La classe politica conscia della sua irrilevanza rispetto alle questioni che davvero contano per la sopravvivenza e la crescita di una nazione, espropriata della sua funzione costituzionale, dopo essersi, piu o meno volontariamente, spogliata delle sue prerogative a favore di entità sovranazionali non elettive vuole inscenare una contrapposizione politica basata sul fittizio?

Si tratta di un tentativo perdente, come dimostrano i risultati degli ultimi anni, di una china irreversibile, perchè questo grande teatro, non riesce a suscitare gli entusiasmi del popolo ne aumenta anzi l’incazzatura, e quando arriverà davvero l’uomo forte, sarà semplicemente una profezia che si autoavvererà e l’avranno chiamato loro, quelli in piazza contro l’odio.

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