La morte di Giulio Regeni è una ferita ancora aperta nelle relazioni tra l’Italia e l’Egitto e per tutti coloro che amano quel meraviglioso paese ma che purtroppo sono costretti ad assistere ad un suo progressivo e lento declino in ogni campo, economico, sociale, culturale, mediatico. Non ci si capacita delle gravissime e sistematiche violazioni dei diritti umani. La morte di Giulio Regeni ci parla prima di tutto di questo: di democrazia e diritti umani.
In un mondo in cui ormai la prepotenza sembra avere la meglio è forse ingenuo chiedere e pretendere il rispetto di diritti umani basilari come quello di non rischiare di scomparire solo perché non si è d’accordo con il Presidente al Sisi, dato che ogni giorno in Egitto vengono rapite e fatte sparire circa 3 persone per mano degli stessi apparati di sicurezza che hanno ucciso il nostro Giulio.
Chi ha vissuto in Egitto conosce bene l’onnipresenza, il sospetto costante (ormai diventato paranoia da quando al Sisi è al potere) e la violenza degli apparati di sicurezza egiziani, a partire dalla famigerata Sicurezza di Stato (un mix tra Polizia Politica e Servizi) fino agli invisibili Mukhabarat (i Servizi veri e propri). La Sicurezza di Stato in particolare, fu al centro delle contestazioni durante la rivoluzione del 2011, che ricordiamo sorse il 25 Gennaio perché è la ricorrenza della Festa della Polizia. Le proteste miravano proprio a rimuovere il Ministro degli Interni, quel Habib al Adly che con Mubarak aveva fatto torturare, uccidere e scomparire migliaia di egiziani.
Il generale al Sisi ha però creato un vero e proprio sistema che reprime chiunque dissenta. Com’è organizzato questo sistema ultra-oppressivo, direttamente responsabile anche della morte di Giulio Regeni? Lo spiega bene un report di Amnesty International: con l’avvento del regime di al Sisi ha ottenuto un potere senza precedenti la “Procura Suprema di Sicurezza dello Stato”. Secondo Amnesty International, “istituita nel 1953, la Procura Suprema di Sicurezza di Stato è responsabile delle indagini e del perseguimento di una vasta gamma di attività che potrebbero costituire una minaccia per la “sicurezza dello stato“.
I suoi pubblici ministeri hanno poteri che di solito sono riservati ai giudici quando si tratta di trattenere sospetti. La Procura Suprema di Sicurezza dello Stato lavora in tandem con la Sicurezza Nazionale. Negli ultimi due decenni, la percentuale di pubblici ministeri che hanno ricevuto la loro istruzione presso l’Accademia di Polizia o che avevano precedentemente prestato servizio presso il Ministero degli Interni, compresa la Sicurezza di Stato, è cresciuta in modo significativo.
Diversi pubblici ministeri della Procura Suprema di Sicurezza dello Stato sono ex ufficiali della Sicurezza di Stato, altri sono parenti del presidente al-Sisi e altri sono alti funzionari del governo. Dal 2013, il numero di coloro che sono stati arrestati dalle indagini della Procura Suprema è aumentato notevolmente. Amnesty International ha riscontrato che la Procura Suprema è responsabile, su larga scala, della detenzione arbitraria sulla base dell’abuso di vaghe leggi sulla sicurezza nazionale. Amnesty International ha scoperto che i pubblici ministeri della Procura Suprema erano complici della sparizione forzata, della tortura e di altri maltrattamenti ed evitavano sistematicamente di indagare sulle accuse di tali pratiche da parte della Polizia egiziana, in particolare della Sicurezza di Stato. Inoltre ammettevano confessioni ottenute sotto tortura come prove nei processi. In alcuni casi, tali prove hanno portato alla condanna a morte e all’esecuzione degli imputati.”
Appena giunto al potere al Sisi mise in atto una morsa repressiva che è andata in crescendo fino ad oggi, la retorica patriottarda e ultra-nazionalista si è mischiata ad un clima di sospetto generalizzato e di paranoia diffusa. Tutti gli occidentali nella retorica del regime erano potenziali “agitatori”, potenziali “spie”, soprattutto se parlavano un po’ di arabo e stringevano dei legami nella società egiziana. Quando Regeni arrivò nel 2015 in Egitto il clima era quello, chi scrive era stato al Cairo solo qualche mese prima e il clima oppressivo e asfissiante era apparso ben chiaro, quando ogni volta si era costretti a spiegare di conoscere l’arabo per motivi di studio e di non essere spie al soldo di qualche potenza cospiratrice contro gli interessi egiziani, oppure il dover far finta di non sapere nulla dell’attualità egiziana, nonostante nelle caffetterie la politica fosse ancora un argomento all’ordine del giorno, sulla scia del periodo d’oro della rivoluzione, in cui il popolo egiziano aveva conosciuto una inedita libertà di espressione e attivismo politico.
Nel 2015 spot pubblicitari trasmessi ripetutamente dalle Tv di Stato invitavano i giovani egiziani a “non rivelare i segreti dello Stato” agli stranieri, con immagini di europei che parlano arabo alla caffetteria e rientrano in centrali segrete degne di James Bond, pronti a riportare i “segreti” appresi.
Al tempo stesso i più popolari cantanti e menestrelli di regime, purtroppo onnipresenti sui canali Tv e radio, cantavano canzoni come “nonostante Dio sia uno solo, voi avete il vostro Signore, e noi abbiamo il nostro” rivolto ai Fratelli Musulmani ma presto allargato a chiunque si opponesse a quella che stava diventando chiaramente la più spietata dittatura della Storia dell’Egitto. La de-umanizzazione degli oppositori si andava completando, chi si opponeva era “al soldo di qualche potenza straniera” e andava espulso dalla comunità civile, rinchiuso in qualche prigione e ucciso.
In particolare chi pretendeva di fare ancora politica veniva represso aspramente, così da far ritornare la politica nell’ambito dei temi di cui “non si parla”, come e peggio che nei giorni più bui del regime di Mubarak, che comunque accanto ad al Sisi sembra un liberale. Dalla presa di potere da parte di al Sisi è iniziata inoltre un’opera di vendetta sistematica contro chiunque avesse partecipato, anche vagamente, alla rivoluzione del 25 Gennaio 2011 e alla successiva vita politica e sociale da parte degli agenti della Sicurezza di Stato. Il desiderio di libertà, i sogni, la rivolta della gioventù egiziana sono stati percepiti quasi come affronti personali, i capi della Sicurezza di Stato hanno iniziato a meditare vendetta, i loro agenti spesso la annunciavano persino a molti attivisti con messaggi intimidatori e minacciosi sui loro cellulari.
L’Egitto ha iniziato a diventare sempre più un grande carcere all’aperto. Dopo il massacro di Rabaa al Adawiyya e Nahda del 2013, con cui al Sissi ha dimostrato i suoi metodi, sono iniziati gli arresti: prima tutti i Fratelli Musulmani e gli islamisti, poi i laici di ogni tendenza, dai liberali ai comunisti, dal 6 Aprile ai Socialisti Rivoluzionari, spesso con accuse di cospirazione contro lo Stato o appartenenza a associazione terrorista. La cosiddetta “guerra al terrorismo” è stata la scusa con cui Al Sissi ha imprigionato migliaia di egiziani, costruendo nuove carceri e riempiendo all’inverosimile quelle esistenti, senza parlare della devastazione del Sinai, con intere città rase al suolo, perché sospetti di “terrorismo”.
Quando Giulio Regeni andò in Egitto a studiare l’area dei sindacati indipendenti, già debole e protesa verso la semi-cancellazione, al Sisi aveva già massacrato ogni forma di aggregazione politica ma anche sociale, ultimi gli studenti delle scuole superiori e delle università. Oggi sappiamo che Giulio fu “attenzionato” sin dal suo arrivo e che la sua ricerca lo aveva messo in contatto suo malgrado con un mondo di informatori. Sappiamo di come il presunto leader degli ambulanti lo abbia segnalato alla Sicurezza di Stato, di come i suoi compagni di appartamento collaborarono con essa permettendo persino una o più visite/perquisizioni nella sua camera in sua assenza, di come addirittura la sua amica egiziana conosciuta a Cambdridge e che lo aiutava nelle traduzioni informasse quotidianamente la Sicurezza di Stato sui movimenti di Regeni.
Ma cosa aspettarsi in un paese dove chiunque vive sotto perenne ricatto, dove quando si vuole arrestare qualcuno se non lo si trova in casa si arresta un familiare, a mo’ di ostaggio, dove il ricorso alla tortura è sistematico, e dove persino postare un pensiero su Facebook costa la prigione, da cui non si sa quando si uscirà? Infatti il metodo perfezionato da al Sisi consiste nell’uso dei giudici della Procura Suprema di Sicurezza di Stato per incarcerare gli oppositori, per poi rinnovare l’arresto ogni 15 giorni e poi ogni 45, così via fino ad un massimo di 150 giorni.
Ma passati i 150 giorni, i giudici della Procura Suprema di Sicurezza dello Stato intervengono su altri giudici, o del circuito militare o del circuito dell’anti-terrorismo, per rinnovare la detenzione e ripartire con questo macabro gioco dell’oca. Tramite questo vero e proprio sistema di incarcerazione di massa, in migliaia giacciono in carceri-tomba, in celle sovraffollate o in isolamento continuo (a seconda del “livello” del detenuto), dove non esistono cure mediche e si muore lentamente, addirittura dal 2013!
Philip Luther, Direttore della sezione Ricerca e Advocacy per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International ha dichiarato: “Oggi in Egitto la Procura Suprema per la Sicurezza dello Stato ha esteso la definizione di” terrorismo “per includere proteste pacifiche, post sui social media e attività politiche legittime, portando i critici pacifici a essere trattati come nemici dello Stato. La Procura Suprema di Sicurezza di Stato è diventata uno strumento centrale di repressione il cui obiettivo principale sembra essere la detenzione e l’intimidazione arbitraria della critica, il tutto in nome dell’antiterrorismo.
Solo a seguito delle proteste del recente 20 Settembre 2019, e temendo nuove manifestazioni il venerdì successivo, il 27 settembre, le autorità egiziane hanno lanciato un’ondata di arresti di massa contro manifestanti, politici, avvocati, giornalisti e molti astanti. Secondo il Centro Egiziano per i Diritti economici, almeno 3.715 persone (3.509 uomini, 122 donne, 81 ragazzi e tre ragazze) sono stati perseguiti dalla Procura Suprema per la Sicurezza dello Stato in questo caso, rendendolo, per quanto a conoscenza di Amnesty International, il caso giudiziario con il maggior numero di accusati nella storia dell’Egitto.”
Le proteste, eccezionali se pensiamo che scendere in piazza oggi in Egitto può facilmente costare la morte o la detenzione, sono sorte spontanee a causa del continuo deterioramento delle condizioni di vita del popolo egiziano, soffocato dall’austerità imposta da al Sisi che ha contratto debiti, dopo che con Arabia Saudita e Emirati, anche con il Fondo Monetario Internazionale che impone le sue politiche.
Giulio Regeni è una delle tante vittime di un regime sanguinario che sta soffocando l’Egitto, è stato trattato come un egiziano, torturato a morte per alcuni terribili e lunghissimi giorni, mentre dal Ministero egiziano si beffavano delle nostre istituzioni negando di sapere dove fosse Regeni. Per questo il suo diventa un caso simbolo, un caso che ci deve far riflettere tutti sulle condizioni di vita nel più grosso e importante paese arabo, in mano ad un dittatore che sta facendo strame dei più basilari diritti umani e riducendo ad un lager un paese di 100 milioni di abitanti.
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