Amedeo Guillet, l’eroe, il guerrigliero e l’ambasciatore che divenne Ahmed

Un fedele soldato, un leader tollerante ma implacabile in battaglia, un uomo romantico, un guerrigliero musulmano… soltanto alcuni dei molti modi per descrivere Amedeo Guillet, l’eroe, il guerrigliero e l’ambasciatore che divenne Ahmed.

Conosciuto anche con lo pseudonimo “Ahmed ’AbdAllah Al-Reda’i”, il Tenente Colonnello Guillet è indubbiamente una figura leggendaria, meritevole di esser menzionata quando si fa riferimento al passato coloniale italiano ed ai passaggi più salienti della Seconda Guerra Mondiale.

La selezione per gareggiare alle Olimpiadi di Berlino del 1936

Nato a Piacenza il 7 febbraio 1909, svilupperà dalla tenera età una spiccata qualità nell’andare a cavallo; questa sua grande passione per l’equitazione lo porterà ad eccellere in ambito sportivo, con la vittoria di numerose medaglie e premi (a tal punto che fu selezionato per gareggiare alle Olimpiadi di Berlino del 1936).

Destino volle, tuttavia, che impegni più importanti lo distogliessero dalla carriera sportiva.

L’Italia aveva bisogno di giovani soldati audaci e valorosi, pronti a lottare per ampliare le colonie nazionali sul suolo africano.

Un gentiluomo fortemente legato alla patria come Guillet (la sua famiglia aveva una lunga tradizione sabauda e filo-piemontese) non poteva ritirarsi da un tale impegno.

L’avventura tra i deserti del Corno d’Africa

Fu così che, nel 1935, iniziò la sua lunga ed eroica avventura tra i deserti del Corno d’Africa.

Da subito dimostrò notevoli capacità militari, tanto puramente belliche quanto amministrative. Fu infatti posto al comando di un reggimento degli Spahis, unità indigena di cavalleria leggera (composta soprattutto da libici, eritrei e yemeniti), e subito iniziò la gestione delle sue milizie.

Guillet comprese presto che il primo passo, necessario per aver presa sui suoi soldati prevalentemente africani, era migliorare il livello di comunicazione: imparò dunque la lingua araba, sedendosi umilmente a fianco dei bambini all’interno della Madrasa (tradizionale scuola coranica).

Una sana armonia, basata sulla tolleranza tra etnie e religioni

Il secondo passo fondamentale era quello di stabilire una corretta disciplina: riuscì ad instaurare una sana armonia, basata sulla tolleranza tra etnie e religioni. Il reggimento era composto da musulmani e cristiani, arabi e abissini… era necessario garantire rispetto e stima reciproca, e Guillet non fallì in questo intento.

Fu anche grazie alla sua audacia ed autorevolezza che, nel giro di poco tempo, le milizie italiane e quelle indigene riuscirono a sbaragliare l’esercito dell’impero etiope, annettendolo di fatto al Regno d’Italia.

Il richiamo alle armi: la seconda guerra mondiale

Trascorso un breve periodo di riposo in patria, il Tenente Guillet venne nuovamente chiamato alle armi: stava incombendo la seconda guerra mondiale, e le colonie africane avevano bisogno di lui.

Presto vennero ricostituiti i reggimenti a cavallo indigeni (il “Gruppo Bande Amhara”), decisi a fermare le imponenti armate britanniche. A poco valse, purtroppo, il coraggio e lo spirito di sacrificio: in meno di un anno, gran parte dei territori coloniali erano perduti.

Guillet passa in rassegna le bande Amhara

E’ in questo momento che viene alla luce la figura di Guillet, decide di lasciare l’esercito italiano, ormai sconfitto, per diventare un guerrigliero e dare tutto sé stesso per l’indipendenza eritrea.

Il comandante diavolo

Al-Qummandar Al-Shaytan (“comandante diavolo”, rispettosamente nominato così per via della sua grande furia in battaglia), si circondò di alcune centinaia di fedeli seguaci ed iniziò una intensa campagna di aggressione alle truppe inglesi, volte a rallentare la loro avanzata.

La guerra personale di Guillet non sarebbe stata la stessa, se non avesse avuto al suo fianco i suoi fidati compagni: le milizie avevano un enorme spirito di sacrifico e, nonostante la carenza di materiale bellico, riuscirono a mettere in difficoltà l’artiglieria inglese.

L’amore travagliato verso la giovane Khadija

Tra le file degli Spahis vi era anche la giovane Khadija, l’agguerrita figlia di un influente capo tribù. Il Tenente, ospitato temporaneamente nella dimora di quest’ultimo, svilupperà una particolare intimità affettiva con la ragazza: un amore travagliato, intenso ma silenzioso, quasi impercettibile. (Guillet manterrà vivo il ricordo della giovane. Anche dopo molti anni dalla campagna in Eritrea, era sicuro che se gli eventi lo avessero permesso, i due avrebbero coronato il loro amore con il matrimonio…)

Dopo alcuni mesi di lotte disperate, l’esercito britannico riesce a sopprimere le rivolte indigene. Venne posta una taglia di mille sterline d’oro a chi avesse trovato e preso Amedeo Guillet, vivo o morto. 

Il ritorno in Italia

E’ giunto ormai il triste momento di sciogliere le milizie. I suoi fedelissimi combattenti gli consigliano una fuga in incognito verso lo Yemen, una nazione libera che lo avrebbe accolto ed aiutato a tornare in Italia.

Il “Comandante Diavolo”, con le lacrime sul volto, abbandona tristemente la sua Africa e la sua Khadija (I due si incontreranno qualche decennio più tardi per un ultimo affettuoso saluto).

Assume un nuovo pseudonimo, Ahmed ‘AbdAllah Al-Reda’i, e con una nuova identità si incammina verso la penisola araba.

Il cambiamento di Guillet, tuttavia, non è certamente una mera trasformazione esteriore.

La conversione alla fede islamica

Infatti, proprio durante questo viaggio, il Tenente attraverserà numerose crisi e sconvolgimenti spirituali, che lo porteranno infine a convertirsi alla fede islamica.

In quegli anni si sentiva privo di sicurezze, lontano da qualunque appiglio, ma la sua salda fede in Dio era l’unico pilastro nei momenti disperati. Non era particolarmente legato al rito cattolico; rispettava con stima la figura storica del Profeta Muhammad e riconosceva la grandiosità filosofica del Corano. Non fu dunque un problema, per lui, compiere la Shahada (testimonianza di fede islamica).

Nonostante non fosse certamente un conoscitore esperto della teologia, il suo poco sapere gli bastava a definirsi musulmano e sentirsi parte integrante della Ummah islamica. In definitiva, la sua “maschera” diverrà col tempo la sua vera identità.

Il miracoloso soccorso di un pastore beduino

Amedeo (o meglio Ahmed) giungerà con non poche difficoltà alle coste dello Yemen.

Il suo viaggio fu lungo e tortuoso: dovette procurarsi del denaro vendendo acqua ad un villaggio, facendo il pescatore o compiendo altre mansioni umili.

In quei giorni di precarietà assoluta non mancarono disavventure di vario genere, come l’aver subito un violento pestaggio da parte di alcuni contrabbandieri ed essere successivamente abbandonato nel deserto (dentro al quale sarebbe certamente morto, se non fosse stato per il miracoloso soccorso di un pastore beduino).

Giunto infine in terra yemenita, Guillet generò numerosi sospetti nella popolazione locale, forse a causa dei suoi modi raffinati o del suo accento arabo assai particolare. Reputato dunque una possibile spia britannica, venne arrestato e portato al cospetto dell’Imam Yahya, il governatore dello Yemen.

La protezione dell’Imam Yahya

Non appena arrivò a corte, raccontò all’incuriosito Imam la sua lunghissima storia, ricca di peripezie ed avventure al limite dell’immaginazione. Garantitosi la simpatia del governatore, riuscì ad ottenere la sua protezione e fu finalmente al sicuro dai cacciatori di taglie inglesi.

Dopo un periodo di meritato ristoro in Yemen, durante il quale Ahmed poté curare alcune ferite di guerra, era forse giunto il momento di tornare in Italia.

L’Imam Yahya offrì al Tenente la prestigiosa carica di “Maniscalco di corte” e “Guardia d’onore”, tanto era il rispetto che il sovrano provava nei confronti di quest’ultimo.

Ma il cuore di Guillet era indissolubilmente legato alla sua patria: salutato il sovrano arabo, si imbarcò su una nave della Croce Rossa italiana e, dopo otto lunghi anni di battaglie e fughe, fece ritorno al suolo natio (era il 1943).

L’incontro segreto con il Re Vittorio Emanuele III

L’Italia che Guillet ritrovò era notevolmente diversa: Vittorio Emanuele III aveva firmato l’armistizio e si era rifugiato a Brindisi, tuttavia il Tenente Colonnello non si sarebbe dato pace, rifiutando la resa fin quando fu invitato personalmente dal Re ad un incontro segreto.

Accolto calorosamente dal sovrano sabaudo, il “Comandante Diavolo” comprese che il tempo di combattere era per lui concluso.

“noi passiamo, l’Italia resta”

Udita la frase “noi passiamo, l’Italia resta” (pronunciata dal Re), Guillet si congedò dall’Esercito italiano, decidendo di servire lo Stato in qualità di ambasciatore per il resto della sua vita. Non si fece mancare, tuttavia, alcune missioni da “agente segreto” per conto dell’Italia in giro per il mondo.

 

Esempio per ogni soldato, eroe per il popolo eritreo, Amedeo si ritirò dalla vita pubblica nei primi anni del 2000, trasferendosi nella quieta Irlanda.

Continuò ad andare a cavallo con passione e dedizione fino ai suoi ultimi giorni di vita, in groppa al suo destriero (che, tra l’altro, si dice fosse un lontano discendente del cavallo del Profeta Muhammad, pbsl)

 

Infine, il “Comandante Diavolo” si spense nel 2010 nell’affetto dei suoi familiari, nel rispetto di coloro che gli furono alleati e nemici, nel ricordo di un’intera generazione che vedrà per sempre in lui un tassello fondamentale della nostra storia contemporanea.

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