DAD – La distanza dall’insegnamento

Se non avete ancora provato l’ebrezza di assistere a una videolezione, proveniente dai bassifondi scolastici o dal piedistallo universitario, siete ancora in tempo per rimediare. Chiedete a un figlio, a un nipote, un amico o anche a uno zio attardato in labirintici studi, di farvi assistere a questo stralcio di futuro. Allora vedrete apparire sullo schermo i contorni di un lungo monologo.

Si passa dal tono confessionale di un suicida colto nell’atto di registrare le sue ultime riflessioni, al ritmo scattante e nevrotico di un professore che pare rispondere alle domande di un intervistatore invisibile. Si va dalla cantilena didascalica di un educatore digitale che chiarisce il manuale di istruzioni della sua materia, alla cadenza da predicatore multimediale che agita di fronte alla telecamera la sue verità.

In ogni caso il monologo delle lezioni frontali, privato del corpo, è diventato un soliloquio digitale. Recitato davanti a pallini o a simboli di telecamere spente, raramente di fronte a volti immobili e assertivi. È evidente come dei soliloqui avviluppati su sé stessi non possano lasciar alcun segno. Non possono quindi insegnare.

In alcune scuole la didattica a distanza ha toccato il suo vertice di assurdità. Insegnanti obbligati a dare lezioni in presenza, ovvero tra le mura scolastiche, ad allievi confinati a distanza, tra le mura delle loro stanze. Così finalmente la scuola ha raggiunto l’apice della sua potenza istituzionalizzante: l’istituzione scolastica si è congiunta con quella psichiatrica, volgarmente parlando, col manicomio.

Una telecamera, o per esser al passo coi tempi un drone, avrebbe ripreso le seguenti scene: corridoi vuoti percorsi da pochi passi frettolosi e visi mascherati. L’aula insegnanti, dove normalmente molte orecchie passive sono deputate ad assorbire lo sfogo di poche bocche nevrotiche, finalmente sigillata. Si chiudono le porte delle aule e strani individui giocano a fare i professori davanti a un computer.

C’è chi urla, chi cadenza litanie monocordi, chi si prodiga in esercizi ginnici, chi legge imperterrito da un libro. Dall’altra parte dell’immagine e dell’udito, ci sono adolescenti con o senza cuffiette, che vestiti di pigiama e coperte ascoltano una parola su mille, mentre guardano serie, chattano, spiano una tv accesa, videogiocano oppure semplicemente dormono. E quei pazzi che si credono insegnanti all’improvviso osano interpellarli, cercano il loro sguardo per sentirsi ancora educatori.

In risposta ricevono poche sillabe: certo professore, bene, chiaro…Il necessario per mantenere in vita la finzione. La lezione finisce, il matto prende un disinfettante e una pezza, pulisce con convulsiva efficienza la cattedra. Chiude la porta dietro di sé e finalmente torna ad esser professore.

Eppure questa lunga storia d’amore educativo era cominciata in tutt’altro modo, nel ventre ribaltato della pedagogia. Sulle sponde del dialogo alcuni greci curiosi e presuntuosi discutevano e dimostravano verità, trafiggendo corpi e spirito. Nei confini di un peripato, con l’odore del mare nelle narici,si erano prefissati di andare oltre i limiti dello scibile: nessuna verità da accettare se non attraverso il dubbio metodico della ragione.

Maestro e allievo evolvevano nella complementarità di una necessaria e faticosa metamorfosi. Poi tra i due arrivò il libro, che andò via via impossessandosi dell’autorità pedagogica; l’insegnante per non perdere la sua autorevolezza divenne testimone o intermediario della sapienza libraria.

La strada era tracciata: per lasciare il segno non bastava più la compresenza di corpi pronti a trasformarsi, bisognava ormai attraversare il peso dei libri, prima trascritti da mani di monacale e operaia pazienza, poi stampati da braccia meccaniche di inchiostro. La stampa moltiplicò i libri e le intelligenze fino a riversare nelle aule dell’Accademia una folla di trascrittori di libri; intellettuali specializzati nell’arte dell’interpretazione, capaci di scrivere soltanto testi su altri testi.

Un carnaio di intelligenze perdute da cui prende infine forma l’università tardo-novecentesca: nell’assenza di teorie e prospettive nuove svettano ancora i libri fondanti, circondati da satelliti di parassiti interpretativi, rapaci capaci di succhiare energia dalla fonte primaria, senza aver davvero null’altro da dire. In un tale acquario del sapere i professori nuotano a proprio agio, impegnati nell’ergersi a testimoni del proprio minuscolo punto di vista, mentre nelle aule scolastiche si sceglie la sintesi.

La conoscenza è ormai troppa, non resta che abbassare il capo umilmente, rinunciare al sapere e inchinarsi alle competenze. Allora non più libri, ma un manuale capace di contenere infiniti e disciplinati elenchi di istruzioni, un prontuario di nozioni che spengono l’appetito di chi apprende, lasciando un retrogusto amaro alla fine di ogni lezione. L’insegnante, afflitto da impotenza al cospetto della competenza, finisce col percepirsi un intermediario di un manuale, nato come sintesi di un universo già infinito di mediazioni tra sé e l’allievo. 

Ma per fortuna l’intelletto continua ad evolversi o così pare e quindi riesce anche a svestirsi delle ultime tracce sensoriali dell’incontro educativo; si fissa e si isola, infine si incastra nella cornice di uno schermo dove inizia a germogliare il meraviglioso mondo della dad.

Un circuito chiuso di informazioni che rimuovendo il talento comunicativo di molti insegnanti, cancellerebbe definitivamente il senso della scuola, mentre potrebbe costituire il giusto epilogo del lungo monologo universitario, un cammino su cui Pegaso, Marconi, Cepu e altri ancora semineranno soldi e certificati, lasciando fiorire l’apprendimento del futuro.