Maiale e ora di religione per Haroun: quando l'”interesse del minore” nasconde la cultura dominante

Nella vicenda del piccolo musulmano, Haroun, di anni sei, iscritto all’ora di religione cattolica per disposizione del tribunale e dispensato, per la medesima disposizione, dall’osservanza delle prescrizioni alimentari islamiche, compare l’espressione “interesse del minore”.

Si tratta di una nozione “magica”, secondo buona parte della dottrina giuridica, che contribuisce ad “ampliare notevolmente (e talora assai pericolosamente) la sfera di discrezionalità dell’ordinamento giudiziario minorile” osserva Gaia Vannoni, giovane giurista che ha recentemente dedicato un libro all’argomento (Dalla parte del bambino, Aracne, 2020).

Una di quelle formule passepartout che esonerano dall’obbligo di produrre buoni argomenti perché chi la usa si mette automaticamente dalla parte della (buona) ragione. Funziona, infatti. Come tutto ciò che suona buono, la gente ci crede e non si pone il problema. Fino al giorno in cui si trova confrontata con cose che non capisce e che molti in cuor loro non accettano: figli di due madri, per esempio.

Ma a quel punto è tardi perché anche questo viene giustificato con “il preminente interesse del minore” (si veda il commento dell’avvocato Carlo Rimini ad una recente sentenza della Cassazione sul Corriere della Sera del 10 marzo scorso). Si tratta in realtà di un concetto vago e privo di definizioni, addirittura “paternalistico” secondo molti giuristi, che lo definiscono anche “retorico e approssimativo”. Ma che fa molto comodo per “mascherare particolari valori, ideologie, o scelte di politica” che spesso non sono altro che “lo specchio della cultura dominante in un determinato momento storico o di valori soggettivi dell’interprete”. Come illustra appunto il caso di Haroun.

Ricordiamo che il bimbo è figlio di un tunisino musulmano e di una rumena cristiano ortodossa: porta un nome tradizionale arabo-islamico ed è stato circonciso e non è stato battezzato. Quando i genitori si separano il tribunale, su richiesta della madre, ne dispone l’affido condiviso, con collocazione presso la madre e visite settimanali del padre. Il padre si rivolge al tribunale a sua volta, lamentando gli ostacoli che la madre pone ai suoi incontri col bambino e chiedendone un ampliamento. Tutto ciò ricalca lo schema classico dei conflitti genitoriali post-separazione: conflitti i quali, se i genitori ne hanno i mezzi, vengono combattuti senza esclusione di colpi e con doviziose parcelle da agguerriti avvocati.

Non è questo il caso del padre di Haroun che usufruisce del gratuito patrocinio.  Il suo avvocato stila un breve ricorso, e il tribunale con ancora più scarna sentenza rigetta tutte le istanze del padre e affida il bimbo al comune di residenza per quanto riguarda “ogni futura decisione relativa all’istruzione e all’educazione del minore che i genitori non siano in grado  di prendere d’accordo tra di loro”.

Ogni futura decisione salvo una: l’educazione religiosa del bambino. Forti dei poteri molto ampi che l’articolo 709ter cpc assegna al giudice, e in nome del concetto molto vago di interesse del bambino, i giudici dispongono “che il minore segua a scuola un’alimentazione priva di restrizioni” e che “il minore sia iscritto all’ora di religione a scuola”.

Perché questo intervento immediato che non può che inasprire il conflitto tra i genitori, alimentando rancore e incomprensione nel perdente e premiando l’indisponibilità del vincente? I servizi sociali “hanno escluso situazioni di pregiudizio per il minore” che risulta “vivace e sereno” e in buoni rapporti con il padre e la madre, mentre questi ultimi, a loro volta, risultano ambedue “attenti ai suoi bisogni” nonché collaborativi con insegnanti e servizi. Si ha quindi l’impressione che esso voglia “punire” il padre che di sicuro non deve essersi guadagnato la simpatia dei giudici.

Certo è, invece, che per i giudici la religione è una “scelta educativa” più o meno equivalente a quella di un’attività sportiva o una materia opzionale. Tant’è vero che in tutta la sentenza le questioni (al plurale) relative “all’alimentazione alla mensa scolastica e alla frequenza dell’ora di religione” vengono trattate in modo disgiunto quasi che non discendessero ambedue da una sola questione: l’educazione del bambino in quanto musulmano. 

La formula “interesse del minore” è una “scatola vuota” ci dicono molti giuristi. Difficile che per la cultura dominante essa comprenda il diritto del bambino ad una fede – o, se vogliamo usare termini “laici”, ad una “appartenenza” o “identità” confessionale. La scatola vuota viene invece riempita con un’altra parola tanto bella quanto vaga, quella di  “integrazione”, sbrigativamente tradotta in “evitare ogni possibile trattamento diversi dai compagni”.

Di conseguenza una scelta religiosa viene derubricata a “privazione  … del tutto ingiustificata”, per il bambino, di “alimenti che possano piacergli” e questo “semplicemente per il volere di uno dei due genitori”. Fatto inconcepibile, per la nostra cultura, perlomeno quando si tratta di musulmani, ché genitori vegetariani o financo vegani hanno diritto ad altra considerazione. Anche se scelgono per i figli un ben più “rigido regime alimentare” di quello chiesto dal padre di Haroun.

Questo modo di trattare la questione dell’educazione religiosa, per quanto palesemente intrisa di pregiudizio antislamico, non fa che riflettere la scarsa considerazione di cui gode il fatto religioso nel nostro paese, ridotto a imporre la partecipazione alle lezioni di religione perché esse “notoriamente sono seguite dalla maggior parte degli alunni della scuola primaria”. Su quest’ultima affermazione c’è poco da dire – si tratta di oltre il 92% dei bambini stante ai dati ministeriali – se non che questa massiccia adesione all’insegnamento della religione cattolica (IRC) produce una nazione religiosamente analfabeta.

La verità è che in molti casi i bambini vengono iscritti all’ora di religione perché è più facile che fare il contrario. Quando mia figlia iniziò a frequentare la scuola primaria, negli anni Ottanta, in un paese di provincia della rossa Emilia (laica, atea e mangiapreti), scelsi di non avvalermi dell’IRC. Saltò fuori che ero l’unica madre della classe, anzi della scuola, a “non avvalermi”.  E che l’unica opzione a disposizione era la permanenza della bimba in corridoio durante l’ora di religione. Minacciai uno scandalo e allora le trovarono una maestra tutta per lei. Questa elaborò un programma eclettico – si andava dal lavoro minorile ai primi rudimenti di educazione sessuale – che a mia figlia piacque moltissimo. L’anno dopo la raggiunse la sua migliore amica la cui  madre (a differenza di me atea e anticlericale) aveva infine trovato il coraggio di “non avvalersi” dell’IRC. 

Non so come sia evoluta la situazione nel frattempo ma direi che poco è cambiato dal punto di vista del conformismo di massa. Le famiglie preferiscono tuttora evitarsi complicazioni e grattacapi – e rischiare di inimicarsi la scuola e gli insegnanti – facendo una scelta scomoda in uno stato che si proclama laico. Lo fanno anche famiglie musulmane che si avvalgono dell’ora di religione giustificandola come “arricchimento culturale”. Che è esattamente ciò che suggerisce di fare la CEI che presenta l’ora di religione come “occasione unica per conoscere la Bibbia” . Peccato che i cattolici italiani brillino notoriamente per ignoranza del testo biblico.

Curioso poi che in un contesto che della promozione della “diversità” ha fatto una bandiera l’interesse del minore debba passare dal “così fan tutti”. Quando mia figlia era piccola mi sono sentita dire infinite volte, da amici e insegnanti, che “i bambini hanno diritto a non sentirsi diversi dagli altri”. Le principali materie del contendere erano tre: non volevo comperarle la bambola Barbie. Non avevamo la televisione in casa. E non le facevo “fare religione”. Peraltro nessuno dei tre items ha mai figurato nella lunga serie di rimproveri più tardi stilata da un’agguerrita figlia adolescente. Eppure si trattava nei tre casi di “trattamento diverso dai compagni”. Incompatibile con l’interesse del minore, secondo l’ideologia contemporanea, perlomeno quando si parla di consumi di massa e di fede. Messi più o meno sullo stesso piano.