Islamizzazione della politica estera turca? No, solo costanti storiche e necessità strategiche

Vorrei fare una riflessione sulla politica estera turca che parte dai diversi articoli che sono usciti negli ultimi mesi (soprattutto in Italia) che presentano una politica estera turca che sta cambiando i propri paradigmi, che sta abbandonando i propri legami con l’Occidente per cadere nelle braccia dell’Oriente. Le posizioni turche nella crisi del Nagorno-Karabagh o nella crisi di Gaza ne sarebbero un esempio lampante. 

Non sono pochi i commentatori che hanno visto negli anni di Erdoğan tendenze sempre più autoritarie e una politica estera che non risponde agli assunti di ‘buon paese occidentale’. Allo stesso tempo sono in molti a vedere sempre più le espressioni di una politica estera turca dominata dalla religione o da un profondo radicalismo islamico, se non proprio di quello che viene chiamato ‘neo-Ottomanesimo’. 

Io questi commenti li trovo profondamente esagerati, superficiali e non fondati su un’analisi storica.

Questo non significa che non si tratti di un sistema politico fortemente centralizzato con elementi autoritari. Anche questa non è una novità nella storia politica del paese, ma questo non è il soggetto di questo articolo. Le tendenze accentratrici almeno dal 2016 ci sono sicuramente, dunque, ma queste non sembrano aver cambiato i parametri essenziali della politica estera turca.

Ora, per poter capire meglio di cosa stiamo parlando forse bisogna procedere con ordine, facendo degli esempi concreti sempre partendo dai commenti (alquanto superficiali, direi) che appaiono frequentemente sulla stampa italiana (e spesso anche quella di altri paesi).

Il primo assunto che spesso si sente è che la politica estera turca a partire da Atatürk è sempre stata di avvicinamento all’Occidente, mentre invece oggi il governo Erdogan—accecato dal suo islamismo—stia tentando di spostare l’asse verso l’Oriente, la Russia, o il mondo islamico. 

Il secondo assunto è che la Turchia stia seguendo sempre più una politica islamista. Quindi, più aggressiva ed ostile al mondo ‘occidentale’ (e forse molti commentatori intendono ‘civilizzato’, riprendendo concetti e paradigmi che ricordano l’imperialismo europeo). 

Partiamo dal primo assunto:

Diciamo subito che questa accusa è stata mossa alla Turchia in diversi periodi storici a partire proprio dal periodo di Atatürk, che in più occasioni cercò di tranquillizzare le cancellerie e l’opinione pubblica occidentale della natura non ostile del suo paese. Non sarà stato sicuramente facile farlo, anche perché la Guerra di Liberazione nazionale turca fu condotta proprio contro le mire espansionistiche ed imperialiste dei paesi occidentali (tra cui anche l’Italia), che dovettero essere sconfitti sul campo di battaglia in Anatolia. Le fasi successive della sua politica estera furono condotte per mantenere l’indipendenza e la neutralità del paese nonostante l’espansionismo europeo.

Atatürk fu succeduto da İsmet İnönü che dovette continuare la stessa politica anche negli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso, ancora una volta, il pericolo maggiore veniva dalle potenze occidentali che occupavano gran parte del Medio Oriente, dall’Italia e delle sue mire espansionistiche nel Mediterraneo orientale e Balcani, dalla Germania hitleriana, e dall’Unione Sovietica di Stalin che continuava a cercare uno sbocco verso i mari caldi. La politica estera di İnönü era di mantenere le distanze da tutti i belligeranti e mantenere la neutralità del paese che non possedeva i mezzi per affrontare un nuovo conflitto. 

Anche İnönü aveva pochissima fiducia nei paesi ‘occidentali’. Un esempio che faccio sempre ai miei studenti è il famoso incontro al Cairo con Churchill e Roosevelt nel dicembre del 1943 che volevano aprire un altro fronte nei Balcani. İnönü era convinto che la Germania non avrebbe vinto la guerra ma tuttavia insisteva sulla neutralità turca.

İnönü fu invitato al Cairo con la rassicurazione che le posizioni turche sarebbero state ascoltate senza pregiudizi ed imposizioni. Dopo che questa richiesta fu accolta, sia gli americani che gli inglesi inviarono aerei ad Adana per accompagnare il presidente turco. Sull’aereo britannico c’era il figlio Randolph di Churchill e su quello americano c’era il genero di Roosevelt. Un’assicurazione necessaria, altrimenti il presidente turco non sarebbe salito su nessun aereo perché temeva per la sua incolumità. Questo incontro servì a poco. La Turchia, infatti, proclamò guerra alla Germania solo nel febbraio del 1945. 

Questa attitudine non cambiò molto nei decenni successivi. Poco prima dell’introduzione del multipartitismo fu il momento di optare per l’Alleanza atlantica quando il mondo stava diventando bipolare. La scelta fu molto sofferta perché gran parte degli attori politici turchi avrebbero preferito la neutralità ma le capacità militari, l’instabilità dei paesi mediorientali che si avviavano verso l’indipendenza, ma soprattutto la minaccia sovietica non lasciava alternativa. Un’importante componente delle forze armate turche era ancora più diffidente, perché entrare a far parte della NATO significava anche una ‘americanizzazione’ delle forze armate, una dipendenza per gli approvvigionamenti militari dagli USA e anche una riorganizzazione dell’esercito sempre sul modello americano. 

Tuttavia, nel corso degli anni, il paese ha sempre cercato di non sbilanciarsi troppo, nell’una o nell’altra direzione, e quindi ha cercato sempre alternative. Giusto per fare qualche esempio: la CENTO, l’accordo di cooperazione con Iraq, Iran, Pakistan e Regno Unito sembrava essere una possibile alternativa regionale. Allo stesso tempo con l’Unione Sovietica il paese firmò accordi di cooperazione e l’URSS contribuì economicamente e con la propria tecnologia alla costruzione di porti e impianti di raffinazione. 

La scelta della Turchia di allora è stata (ed è ancora oggi) determinata dalla sua posizione geografica: il paese si trova in almeno quattro zone geopolitiche: il Mediterraneo orientale, il Medio Oriente, il Caucaso, i Balcani (e nessuna di queste regioni sono note per la loro tranquillità). 

Inoltre, il paese (forse non a torto) ha dubitato della sincerità dei suoi alleati occidentali. La Turchia da sempre teme che la NATO non interverrebbe a favore della Turchia in caso di pericoli che derivino dal Medio Oriente o dalla Russia. Per esempio, quello che accadde dopo la Prima Guerra del Golfo prova che Ankara non aveva torto. La strategia americana causò un’ondata di profughi dall’Iraq e la Turchia fu lasciata sola nella sua gestione. Inoltre, l’indebolimento dello Stato centrale in Iraq aprì la strada al rafforzamento del PKK nel paese e la costruzione di basi per la sua guerriglia (una guerriglia che continua tuttora). Anche in questo caso l’intervento dei paesi occidentali a sostegno della Turchia fu minimo. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. 

Ankara era anche convinta che gli interessi turchi nella regione non sarebbero mai stati considerati legittimi. Già a fine anni ’50 emerse la questione delle comunità turche a Cipro. Invece di optare per una mediazione, le posizioni degli alleati occidentali apparvero da subito a favore della Grecia. La famosa lettera del Presidente americano Lyndon B. Johnson al Primo Ministro İnönü fu causa di grande delusione, ma non rappresentava proprio una sorpresa. Nella sua lettera, Johson affermava chiaramente che eventuali ostilità tra Grecia e Turchia su Cipro avrebbero potuto creare le premesse per un intervento militare sovietico e una possibile invasione del territorio turco. Se questo si fosse verificato, affermava Johson, la NATO non sarebbe intervenuta a sostegno della Turchia. ‘Bella alleanza militare!’ avranno pensato in molti ad Ankara. 

La conseguenza della lettera fu ovviamente una politica estera sempre più autonoma dallo scudo difensivo americano e tentativi di mantenere positive le proprie relazioni con Mosca. Nei periodi positivi tra Washington e Ankara, invece, si è sentito meno il bisogno di relazioni con Mosca ma mai si è pensato a rotture. Sia ben chiaro, però, la Turchia non ha stretto un’alleanza con l’URSS, in questo periodo, perché comunque non c’era un’intesa strategica tra le due capitali ma c’erano spazi di cooperazione.

Oggi, la situazione non è molto diversa. Ankara e Mosca non hanno un’alleanza perché non c’è sintonia su questioni chiave per la sicurezza della Turchia. Pensiamo che i due paesi hanno visioni contrapposte sull’Ucraina, sul Caucaso, Libia e soprattutto sulla Siria. Ankara, però, si sforza di trovare uno spazio di dialogo con Mosca per poter comunque essere sostenuto in ambiti dove gli alleati occidentali non sarebbero disposti a collaborare. Allo stesso tempo, la Turchia non vuole assolutamente che la NATO entri in aperta ostilità con la Russia per non compromettere i propri interessi strategici. 

Questo atteggiamento pragmatico è il risultato dell’altalenare delle relazioni turco-americane e anche della geografia così unica della Turchia. Non è, però, un atteggiamento così atipico. Basti pensare alla politica mediterranea dell’Italia che in più occasioni si è trovata in contrasto con le posizioni americane e non sono mancati momenti di tensione. Basti pensare alle diverse vedute sull’OLP di Arafat e le relazioni tra Roma e Tripoli all’epoca di Gheddafi.

Passiamo velocemente al secondo assunto secondo il quale la Turchia starebbe impostando sempre di più la propria politica estera su considerazioni religiose. Insomma, un governo islamista con una politica islamista contraria ai principi occidentali.

Due punti fondamentali: 

  1. Il governo AK Parti non è un governo islamista ma conservatore (sono due correnti ideologiche diverse).
  2. Non confondiamo la maggiore presenza della religione nella sfera pubblica contemporanea con una islamizzazione della società turca. La presenza della religione è frutto della liberalizzazione del paese mentre l’islamizzazione non c’è, anzi sono in molti a pensare ad un processo di secolarizzazione negli ultimi anni. 

Bisogna riconoscere, però, che negli ultimi due decenni l’AK Parti ha sempre più adottato una retorica basata sulla propria immagine storica che è costituita indubbiamente dall’enfasi posta sulla gloriosa storia ottomana e sui toni nazionalisti. Tuttavia, questa retorica è indirizzata all’opinione pubblica interna. L’opinione pubblica delle zone geopolitiche in cui si trova il paese, non è sempre affascinata da questa retorica, anzi l’enfasi sulla tradizione ottomana è ricevuta con ostilità in molti paesi arabi e balcanici. Cosa attrae di più della Turchia in questi paesi è la sua prosperità economica e i rapporti più rilassati con la religione.

Insomma, per fare un esempio, cosa entusiasma di più della Turchia non è l’immagine che presenta la serie televisiva “Resurrection Ertuğrul” (Diriliş Ertuğrul) ma piuttosto l’immagine più accattivante che il paese trasmette di sé per i paesi vicini è nella serie “Bitter Sweet – Ingredienti d’amore” (Dolunay), trasmessa anche in Italia.

Ora se limitassimo la nostra analisi unicamente a questa retorica, allora certo dovremmo parlare di una ottomanizzazione o islamizzazione della politica estera turca. Eppure, io penso che dobbiamo concentrarci su gli obiettivi e il raggio delle politiche turche. La politica estera turca negli ultimi decenni ha cercato di sostenere il suo sviluppo economico con la ricerca di nuovi e più dinamici mercati che, però, non avrebbero sostituito i ricchi mercati europei o quello nordamericano. Allo stesso tempo questa è basata sulle priorità di garantire la sicurezza (quindi lotta al terrorismo, il vero mantra della burocrazia di Ankara) e sicurezza delle proprie risorse energetiche (ed anche quelle della comunità turca di Cipro del Nord). 

Quello che ho cercato di affermare è che la politica estera della Turchia è rimasta nel tempo legata ai suoi vecchi schemi. Difficilmente si può parlare di una islamizzazione o di una politica non più laica. 

Certo questo non significa che la politica estera turca non sia cambiata negli ultimi venti anni. Se affermassi una cosa del genere sarei probabilmente radiato dalla professione. Infatti, la politica estera di Ankara è sicuramente cambiata perché le regioni geopolitiche in cui si trova sono profondamente cambiate. Il Medio Oriente, per fare un esempio, è passato da un regime di egemonia americana ad una regione con multiple potenze regionali che si confrontano e una Russia intenta a sostituire gli USA nella regione. Oppure il Mar di Levante è diventato oggi una zona con immensi potenziali energetici ma, allo stesso tempo, diviso da conflitti molto antichi. In entrambi i casi il paese deve inevitabilmente prendere l’iniziativa. 

Inoltre, la Turchia è cresciuta economicamente, ha fatto investimenti nel campo militare ed energetico ed ha ottenuto, in questo settore, tecnologie strategiche. Il motivo principale è, ancora una volta, evitare di essere totalmente dipendente da un paese o un’alleanza.

Così come è stato prima di Erdoğan, le relazioni con Ankara non devono essere stabilite cercando di imporre una visione del ‘bene’ o di valori, ma cercando punti in comune—i punti, cioè, dove ci possono essere affinità di interessi. Allo stesso tempo, così come İnönü chiese a Roosevelt e Churchill, Ankara vuole vedere i propri interessi riconosciuti come legittimi e non minimizzati secondo desueti paradigmi culturali.