Tributo a Shaykh ‘Abdu’l-Qādir as-Sūfī” fondatore dei Murabitun

Domenica 1 agosto ha lasciato la vita terrena Shaykh ‘Abdu’l-Qādir as-Sufi al-Murabit, a capo della Tariqa Darqawi-Shadhili-Qadiri, fontarore del Movimento Mondiale Murabitun e autore di numerose pubblicazioni sull’Islam e sulla politica.

In una scena di “8 e ½”, il famoso film di Federico Fellini – di cui era amico e complice di  avventure artistiche – il regista Guido Anselmi (interpretato da Marcello Mastroianni) chiede a  Maurice il mago, suo amico di lunga data, se è vero che sa leggere i pensieri delle persone. Maurice  conferma questo suo impressionante talento, e lo vuole dimostrare apertamente ai presenti.

Anselmi  sta attraversando un periodo di profonda crisi esistenziale e creativa, impantanato nella ricerca frustrante di una ispirazione per il nuovo film a cui sta lavorando da tempo, e il saggio mago lo  aiuta a trovare quella ispirazione accettandosi e seguendo il vero io dentro di se – io bambino,  spettacolarizzato dal carosello finale guidato proprio da Maurice. 

Nel 1963, “Maurice”, ossia l’artista Ian Dallas (ma era veramente quello il suo nome originale, o  esso stesso un nome d’arte? Come in una scena onirica felliniana, realtà e fantasia spesso si  mescolano), abbracciò l’Islam a Fes – per mano del famoso pensatore riformista ‘Allāl al-Fāsī –, e  adottò il potente nome islamico di ‘Abdu’l-Qādir, quello del Polo dei Poli di Jīlān, a cui poi fecero  seguito tutto una serie di alqāb (designazioni), as-Sūfī ad-Darqāwī (nome di ascrizione alla  Darqāwiyyah, ramo dell’Ordine Sufi della Shādhiliyyah, originatosi con Mawlāy al-‘Arabī ad Darqāwī, un grande Sufi del Marocco) e al-Murābit, che invece ha un contenuto semantico più  ambiguamente multiforme: 

Si riferisce agli storici Almoravidi (al-Murābitūn), i quali, di origine berbera e provenienti  dal deserto dell’Africa occidentale, risalirono purificando comunità islamiche afflitte da  decadenza, soprattutto i piccoli principati nel quale il Califfato andaluso si era frantumato, e  fondarono una dinastia che governò Marocco e Penisola Iberica, fondando Marrakesh,  arrestando l’avanzata cristiana nella famosa battaglia di Zallāqah sotto la guida di Yūsuf b.  Tashfīn, riunificando l’Andalus politicamente e militarmente, abolendo le tasse, e  producendo luminari del Dīn come al-Qādī ‘Iyād, autore tra le altre cose di uno dei libri essenziali per ogni musulmano, Ash-Shifā, impregnato del suo smisurato amore per il Profeta (pbsl), 

si riferisce in generale a ogni gruppo della frontiera, ossia quei musulmani che si  raggruppavano in roccaforti (rubut, pl. di ribāt) per difendere la comunità intera in quelle  zone di confine dove più ci si poteva aspettare un attacco del nemico, e traevano forza e  vigore da una severa disciplina fisica e spirituale. 

E in effetti, sia il suo approccio all’Islam che quello dei suoi tanti studenti e discepoli – diretti ed  indiretti, fra cui gli stessi Hamzah Yūsuf and ‘Umar F. ‘Abdullāh andrebbero citati – sparsi in tutto  il mondo si è sempre contraddistinto per porsi quasi in una linea di frattura fra due mondi e due  dimensioni, in un interspazio fra Occidente e Oriente, fra tradizione e innovazione, fra emulazione rigorosa e iconoclastia, fra Legge e Realtà, fra politica e spiritualità”. 

Gli esordi 

C’è qualcosa di anti-poietico nel fatto che in tanti oggi piangono la sua dipartita da questa  temporanea dimora poco dopo che una nullità assoluta che si fa chiamare J-Ax censura una  decisione adottata sul Green Pass ai suoi concerti dal grande chitarrista rock-blues Eric Clapton.  

Clapton, che lo cita nella sua autobiografia e che trasse ispirazione per uno dei suoi brani più  famosi, Layla, dall’incoraggiamento di Ian Dallas a familiarizzarsi con l’epopea di Laylā e Majnūn,  fu uno dei protagonisti di quella irripetibile stagione di fermento creativo – tra gli altri, in aggiunta  al già citato Fellini, il giovane Bob Dylan e forse gli stessi Beatles – ad aver tratto giovamento  dall’interazione con il nostro. 

Ed è significativo che mentre i J-Vax dei nostri tempi incarnano l’asservimento più totale al  conformismo imperante – che pure vanta un numero impressionante di reclute fra musulmani, anche  di spicco – Shaykh ‘Abdu’l-Qādir ha sempre rappresentato un elemento di rottura – forse anche  troppo – che costringeva i seguaci a trascendere i propri limiti e a misurarsi con nuove idee e  prospettive, sovente spiazzandoli e costringendoli a rovesciare opinioni e posizioni consolidate. 

Una volta, a Londra, mentre sedevamo in una pizzeria, gustando il piacere della buona compagnia e  del buon cibo, uno dei suoi  discepoli, l’italo-californiano Hajj ‘Abdullāh Luongo, esperto di poetica e critica anti-usura del  letterato americano Ezra Pound, mi disse che il suo Shaykh era un anarchico totale che metteva sottosopra le esistenze dei suoi discepoli, sconvolgendole e lasciando dietro una scia di dilemmi,  tormenti e rimpianti personali – soprattutto nei rapporti fra padri e figli.  

Questo atteggiamento iconoclasta era proprio del suo bagaglio – non solo temperamentale ma anche  culturale – che lo ha accompagnato e formato nella temperie artistica (cabaret, teatro, cinema,  letteratura, aveva una conoscenza vasta ed enciclopedica) in cui affinò il suo poliedrico talento. 

E parte di quel talento si manifestò poi nella sua profonda ricerca sulle fonti sapienziali islamiche – e non c’è dubbio che, anche se mai ammessa, doveva avere una familiarità non comune con l’arabo  scritto.  

E dal Marocco, dove era entrato nell’Islam come detto, irruppe con furia iconoclasta nel mondo fin  troppo ingessato del Sufismo in Occidente. 

Fu avviato su quella strada dal suo maestro, il walī Shaykh Muhammad b. al-Habīb, la cui zāwiyah  frequentò a Meknes, e che lo spronò a disseminare il messaggio dell’Islam fra gli occidentali come  lui. 

I dettagli del passaggio di consegne fra maestro e discepolo sono contestate, e non si può negare che  polemiche e controversie abbiano affiancato da subito il suo percorso da leader spirituale  nell’ambiente islamico, o che tinte chiaroscurali abbiano aleggiato da sempre attorno alla sua figura  e al suo contributo. 

Pensiero ed eredità intellettuale 

La prima volta che tornai in Italia – ero a Roma, ospite di mio fratello – da musulmano, un fratello  cortese ed intellettuale guenoniano mi rimproverò la vicinanza alla cerchia dei Murabitun – fu solo  in seguito che appresi le ragioni di tale dissidio sapienziale, esacerbato in seguito dalla  pubblicazione del volumone di Esoteric Deviation in Islam, in cui si intravede chiaramente la “longa mano” dello Shaykh dietro la paternità autoriale (fittizia?) di Umar Vadillo. 

Fu mesi prima, quello stesso anno – l’anno del mio ingresso nel Dīn – che ne feci la conoscenza dal  vivo per la prima volta (avevo avidamente letto alcuni suoi libri nei miei primi quattro mesi da  musulmano), ad un discorso per ospiti invitati nella casa a Fordsburg, Johannesburg, del gentile  dottore indiano Coovadia.

Ero appena tornato da un lungo meeting dei Tabligh Jamaat a centinaia di  chilometri di distanza, costellato da lunghi e noiosi discorsi in Urdu sulla barba, e il mio amico Xhosa, Hamzah, mi informò di quell’incontro serale. Nonostante la fatica del lungo viaggio dissi  “vengo” e cambiai i miei programmi.

Non stava bene, in quel periodo, dopo una dolorosa operazione alla schiena, e la stanchezza era ben  visibile sul suo volto e sui suoi movimenti. 

Era da poco uscito uno dei suoi libri chiave – Root Islamic Education – che, pur con degli eccessi  ideologici riguardo al “pre-madhhab di Mālik” (una risposta arci-salafi al dominio della propaganda  salafita?) –, offrì impareggiabili spunti di riflessione e nuovi orizzonti di conoscenza e pratica  islamiche a me e a tante altre persone, e continua a farlo tuttora. 

In quel libro-trascrizione di un ciclo di lezioni, si lanciò in un’aspra critica sia del riformismo  ‘Abduhi sia della rivoluzione khomeinista che era ancora fresca nella memoria di tanti, e nell’ultima  fila sedeva un agguerrito schieramento di rappresentanti dell’MYM (Muslim Youth Movement) – tutti i gruppi riformisti sembrano echeggiarsi a vicenda nei nomi, attraverso i continenti – con una  batteria di cannoni verbali puntati su di lui, citando il suddetto testo pagina per pagina (non riuscì a  farmi presentare a lui personalmente quella volta, ma ebbi tante occasioni in seguito di spendere  tempo con lui, pranzarci insieme più di una volta, e discorrere di argomenti islamici e personali).  

Adottare posizioni nette, che portavano lettori e ascoltatori ad amarlo o ad odiarlo alla follia, è sempre stato un suo tratto distintivo, in linea con le sue origini di artista provocatorio (proprio come  era Battiato nella sua prima fase). 

Ma non c’è dubbio che per i fruitori affezionati o neutralmente equilibrati, il lascito filosofico e  sapienziale di Shaykh ‘Abdu’l-Qādir sia prodigo di rare gemme di pensiero, squarci di genialità impareggiabile.

È una qualità che attraversa la sua opera letteraria, dal libro dell’esordio,  l’allegorica autobiografia The Book of Strangers che narra di un libraio nordico scomparso nel nulla senza lasciar traccia di sé, a titoli come Jihad – A Groundplan, Kufr, The Hundred Steps, Letter to  an African Muslim, The Sign of the Sword, The New Wagnerian, Sultaniyya, The Time of the  Bedouin, giù giù fino all’ultima uscita, The Shield of Achilleus, datato 2019: 

– L’intuizione che la cabina di comando dei nemici di Dio è in quest’epoca di natura  economico-finanziaria, non politica o militare. 

– L’analisi raffinata dell’usura e della sua tentacolare egemonia nel mondo. – La rivalutazione della centralità dell’oro e dell’argento nell’Islam

– La realizzazione – ben prima degli eventi degli anni ottanta – che capitalismo occidentale e  comunismo orientale fossero solo due espressioni della stessa patologia, due facce della  stessa medaglia che dovevano inevitabilmente fondersi. 

– Il sottile scandagliamento del kufr come realtà univoca che assume solo fogge  secondariamente diversificate.

– La critica dello Stato (lo stato-nazione e il super-stato trans-nazionale) come legittimo  soggetto politico, ancor di più in un’ottica islamica (totale rifiuto del concetto di “Stato  islamico”), la denuncia del giacobinismo, e la sponsorizzazione dell’autorità personale  nell’Islam (tema, quest’ultimo, sviscerato in un modo non sempre esente da contraddizioni). 

– La definizione del movimento riformista come importazione nell’Islam di ideologie  massoniche. 

– La piena comprensione, avanti di decenni rispetto agli altri pensatori, del fatto che, dopo la  proliferazione di sanguinari estremismi abilmente manipolati, il mondo islamico, esangue, si  sarebbe ritirato in un’impotente tolèrance, inclinata verso posizioni di umanesimo  perennialista (basti vedere il rapido mutamento di pelle da parte del regno saudita ai tempi di  MBS). 

– La critica alla chirurgica separazione fra fiqh e Sufismo, fra esteriore ed interiore, e  l’incitamento ai suoi studenti di formare comunità coagulate attorno a un leader politico  (anche se poi, de facto, ha spesso sabotato la sua stessa teorizzazione). 

– L’enfasi sulla inscindibilità della coppia salāt e zakāt, e la chiamata alle armi per restaurare  teoria e pratica di quest’ultimo impolverato pilastro. Ha riacceso i riflettori sulla questione  della giustizia economica, del commercio veramente libero e della interdipendenza fra  moschea, mercato aperto a tutti e clinica comunitaria fuori dalle logiche dell’industria  sanitaria e farmaceutica (altresì interessante è la sua sponsorizzazione di forme di medicina  alternativa, e non è un caso che il suo movimento abbia attratto un numero considerevole di  loro praticanti).

Il tema delle fondazioni (awqāf) nella storia e contemporaneità dell’Islam ha  beneficiato di grande attenzione da parte sua e del suo movimento. 

– La rivitalizzazione della conoscenza e attuazione pratica dei giudizi legali sugli aspetti  transazionali del Dīn (mu`āmalāt), largamente coperti dalla ragnatela dell’oblio ai tempi  della sua comparsa sulla scena negli anni sessanta. 

– Il recupero di una gloriosa tradizione giuristica e comportamentale – quella della Gente della  Medina e del suo depositario, Imām Mālik – che era stata accantonata nei suoi stessi centri  geografici sotto la spinta della propaganda wahhabita – e che si è concretizzata ben presto,  non solo nei suoi scritti, ma anche nella pubblicazione in lingua inglese di capolavori  malechiti come il Muwatta’, la summenzionata Shifa e tantissimo altro (fu proprio Shaykh  ‘Abdu’l-Qādir che incentivò il mio studio a Tunisi con Shaykh Muhammad ash-Shādhilī an Nayfar, famoso sapiente malechita). 

– La proliferazione di stimoli ad espandere i propri orizzonti culturali e abbracciare nuovi  campi di esplorazione fino ad allora sconosciuti alla maggioranza dei suoi seguaci: la musica classica, la filosofia tedesca, la cultura osmanlica e così via, seguendo gli sviluppi  del pensiero occidentale dall’antichità classica alla prossimità heideggeriana al salto nel  tawhīd, e confutando la asserita estraneità dell’Islam alla civiltà dell’Occidente.

Tutto ciò ha  fatto dei Murabitun uno dei pochi movimenti che presentano un Islam radicato nel sentire  occidentale e compatibile con le sue manifestazioni più alte, senza alcuna penalizzante  rinuncia della propria identità o genio specifico. 

– La rivalutazione del ruolo della donna, membro inscindibile della coppa collaborativa, e di  pratiche islamiche marginalizzate e spesso stigmatizzate come la poliginia (cui non sempre i  suoi seguaci hanno però reso concretamente giustizia), nel mentre che sgonfiava il peso da  alcuni assegnato ad esteriorità come il niqāb. “Monogamia è misoginia” è uno dei suoi detti  tipicamente squillanti. Tutto questo insieme alla critica pungente alla famiglia nucleare e  alla piattezza borghese. 

La pubblicazione, sotto la sua supervisione o a sua richiesta, di gioielli autoriali del fiqh e  del Sufismo dell’occidente islamico, non solo di sapienti famosi come Ibn ‘Ajībah, Ahmad  al-‘Alawī o lo stesso ‘Uthmān da Fodio, ma anche di figure considerate frettolosamente  minori come ‘Alī al-Jamal, il cui libro senza titolo, pubblicato come The Meaning of Man, assunse ben presto lo status di testo di culto, il cui titolo gli adepti sussurravano gelosamente fra di loro.

E neanche sto qui ad accennare, nemmeno a grosse linee, alle tante opere, originali e in traduzione, coi quali i suoi studenti hanno arricchito la biblioteca islamica e la  cultura dei musulmani e dell’umanità tutta, in svariate lingue di molti paesi, come nel caso  di ‘Abdus-Samad Clarke, ‘Alī Laraki e ‘Ā’ishah Bewley nel mondo anglofono, che non  avrebbero visto la luce senza il suo insegnamento e la sua influenza. 

– L’impulso a formare comunità omogenee (anche se a volte scadevano, come spesso succede  in questi casi, nell’auto-referenzialità insulare), che soprattutto nel sud della Spagna ha impiantato  radici stabili e produce frutti rigogliosi. 

Tirando le fila… 

Ci sarebbe parecchio altro da dire, ma mi fermo qui. 

In pochi mesi, due persone che hanno avuto un peso notevole nel mio avvicinamento al Dīn e nella  mia formazione islamica – nell’ultimo caso lasciando in me un’impronta indelebile – ci hanno  lasciato, prima Battiato e adesso Shaykh ‘Abdu’l-Qādir.

Ci hanno lasciato – lontano dai fasti della cultura underground che ne aveva punteggiato i rispettivi esordi – in un’epoca d’involuzione galoppante dove si addensano sempre più spesse e sinistre le nubi del raggiro e dello spaesamento. 

E dove i pigmei pretendono di dare lezioni morali ai giganti, arrogandosi il ruolo di guide di  riferimento fra il plauso dissonante degli allocchi. 

Ma questa è una faccenda che interesserà noi, i sopravvissuti. 

(Revisione a cura di Davide S. Amore