Con la pandemia siamo diventati tutti Don Abbondio?

… “Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,” rispose questo: “sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio.” 

“E vi par codesta una ragione bastante, per lasciar di adempiere un dovere preciso?”

“Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita…” 

(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXV)

Siamo nel capitolo XXV dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, il capolavoro che è un pilastro fondamentale, insieme a davvero poche altre opere di narrativa e di 

poesia, del patrimonio artistico e letterario italiano.

La storia che racconta il Manzoni è conosciuta e famosissima: generazioni di studenti prossimi all’esame di maturità hanno dovuto leggere e meditare, con più o meno entusiasmo e piacere, su quelle vicende per l’esame orale e scritto di italiano; e chi l’esame di maturità non ha potuto o dovuto sostenere, di Renzo e Lucia e di quella miriade di altri personaggi che vivono nel romanzo ha comunque sentito parlare, magari anche solo per aver seguito in tv qualche riduzione televisiva più o meno riuscita e fedele. Ne ricordo con un po’ di nostalgia la prima, quella del 67, con Nino Castelnuovo e Paola Pitagora, ero un ragazzo allora.

Ma torniamo a noi, torniamo a Don Abbondio, il parroco, che intimorito dalle minacce di Don Rodrigo, un signorotto locale, arrogante, prepotente ed aggressivo, mancando per viltà a quello che sarebbe stato un suo preciso dovere, nascondendosi dietro un mare di pretestuose chiacchiere, infarcite di oscure citazioni latine per meglio confondere i suoi sprovveduti ascoltatori, aveva negato le nozze a Renzo Tramaglino e a Lucia Mondella, due suoi giovani parrocchiani decisi a metter su famiglia.

Dopo un susseguirsi di avvenimenti e vicissitudini durante i quali la sua sola preoccupazione era stata unicamente quella di preservarsi la vita, si trova a colloquio, lui piccolo prete di campagna che agognava solo all’anonimato e alla tranquillità che l’anonimato gli avrebbe dovuto garantire, nientepopodimeno che con il cardinal Borromeo, il quale all’anonimato e alla tranquillità, a differenza di quel suo prete fino a quel momento sconosciuto, non teneva affatto, anzi. 

E, come noto a chi I promessi sposi ha letto e ancora ricorda, l’incontro si svolge in una situazione di totale asimmetria umana: da una parte un principe della chiesa, un uomo in odore di santità, un ecclesiastico tutto d’un pezzo, pio e coraggioso, dedito alla carità e alla sua missione apostolica. 

Dall’altra un piccolo prete, meschino, incrostato come una cozza al suo limitatissimo mondo e alle sue abitudini, preoccupato solo di scansare noie e fastidi; un uomo che ha fatto della sua sopravvivenza un valore assoluto, da difendersi ad ogni costo, anche a costo della vigliaccheria e dell’infamia di non aver fatto quello che doveva essere un suo preciso, imprescindibile dovere. 

Tutto questo perché? Come prete dovrebbe credere a qualcosa che trascende la quotidianità e non limitarsi a regolare i suoi giorni sul proprio stomaco e sulle di lui esigenze, e forse in modo confuso e superficiale in qualche modo ad un mondo altro crede, -siamo nel seicento gli atei sono una trascurabile minoranza- ma malgrado ciò si è comportato seguendo solo quel che gli dettava il suo istinto di sopravvivenza, la sua paura. 

Don Abbondio è un personaggio partorito dalla fervida fantasia di un grande scrittore. Il quadro storico nel quale vive e opera è la Lombardia nella prima metà del diciassettesimo secolo; il romanzo invece, scritto nella prima metà dell’ottocento, è basato su una ricostruzione storica che per i criteri del moderno realismo, due popolani lombardi che parlano tra loro in una lingua così forbita ed elegante che neanche fossero stati nobili fiorentini, lascia un po’ a desiderare, ma che resta comunque più che accettabile e credibile anche per i nostri palati. 

Ed infatti I promessi sposi, come tutti i veri capolavori è e sarà sempre per chi lo legga godibilissimo, leggerlo un piacere ed un arricchimento.

Il personaggio don Abbondio, benché come si diceva creatura frutto di fantasia, è vivo e reale, perché incarna perfettamente un tipo umano universale. 

Anche nel mondo attuale, come per don Abbondio, il mondo nel quale noi tutti viviamo, la sopravvivenza personale, ipostatizzata nel concetto di salute, rappresenta il valore più importante, quello per il quale tutto è lecito sacrificare. 

Il nostro mondo è un universo popolato dalle cose, dalle merci, dai beni di consumo; dove le persone crescono e diventano adulte nel mito dell’efficienza fisica e del benessere. Per l’uomo medio moderno, per l’uomo massa, nulla esiste se non quello che si può vedere e toccare e soprattutto possedere. 

E nella mentalità corrente, come per quel buonuomo di cui narra il Manzoni, la vita, intesa come materialità e salute animale, è il bene più prezioso; il bene, il valore al quale tutto è lecito sacrificare. Gli altri valori, la libertà, la patria, l’anima, la democrazia, sono per lui astratte chimere, roba magari buona per il discorso di Mattarella a reti unificate; ma ciò che conta, ciò che davvero è importante, è la pellaccia.

Questa forse è una delle ragioni, e neppure la minore, per la quale da un paio d’anni a questa parte, con l’arrivo di un cigno nero chiamato Covid, il paese Italia ha di fatto abdicato ad ogni ragione politica e civile, ha congelato la costituzione e la vita democratica, affidando di fatto il governo del paese a organismi mai visti prima, e che nessun ordinamento politico democratico mai aveva previsto, i CTS (acronimo per Comitato Tecnico Scientifico), organismi che dettano al governo in carica e al banchiere che lo presiede l’agenda politica, che hanno esautorato il parlamento e che in nome della salute hanno imposto ai cittadini una vaccinazione di fatto divenuta obbligatoria e, ormai da oltre due anni, limitazioni della libertà personale impensabile e intollerabile in altri tempi. 

Chiudiamo queste righe con una citazione tratta da un articolo di Giorgio Agamben del 20 marzo del 2020 intitolato Riflessioni sulla peste:

Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla-tranne alla nuda esistenza biologica che occorre a tutti i costi salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.