Nel suo Manifesto contro il Grande Reset, Dugin spiega la Russia di Putin

Che cosa ha spinto Putin a pianificare e attuare un attacco bellico così imponente in Ucraina? Qual è il terreno ideologico su cui nasce una tale decisione? Si dice che tra i punti di riferimento filosofici e culturali di Putin, occupi un posto d’eccellenza il filosofo Aleksandr Dugin. Diventa allora interessante soffermarsi sul suo ultimo saggio: Contro il Grande Reset – Manifesto del Grande Risveglio.

Tra le pieghe di questo scritto emerge infatti il ritratto di una Russia, come una delle forze in grado di opporsi all’egemonia liberale e globale che sta dominando l’Occidente intero. Sulla scia della potenza russa potrebbero schierarsi la Cina, l’India, una consistente parte del mondo musulmano e non solo: anche il trumpismo e tutti i populismi emersi nei paesi europei.

Secondo Dugin, si sta configurando un conflitto, aggravato dall’ascesa al potere di Biden negli Usa, capace di oltrepassare la semplice dicotomia Occidente/Oriente. A tal proposito Dugin afferma (ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina): così, la nuova leadership della Casa Bianca non solo non mostra la minima volontà di avere un dialogo alla pari con nessuno, ma punta a serrare il proprio discorso liberale, non tollerando alcuna obiezione. Il globalismo sta entrando in una fase totalitaria. Questo rende più che probabile lo scoppio di nuove guerre, e aumenta il rischio di una Terza guerra mondiale.

Ma facciamo ordine. Bisogna risalire la corrente del ragionamento. Dugin individua l’origine dell’attuale stato delle cose nella scissione medievale tra universalismo (realismo) e nominalismo. Da una parte la tradizione platonica e aristotelica, da cui nasce una concezione della realtà in cui l’individuo si dissolve nel genere e nella specie cui appartiene (famiglia, comunità, città, Stato, Chiesa, fino ad arrivare all’universo e a Dio); dall’altra parte, la tradizione figlia di Guglielmo di Occam, secondo cui soltanto gli individui sono essere reali. Secondo Dugin, il “nominalismo” pose le basi del futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani vengono considerati unicamente alla stregua di individui, venendo prescritta l’abolizione di tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.).

Man mano che la modernità avanza, il liberalismo assurge a nobile rivestimento del capitalismo, si propaga in economia sotto forma di liberismo, si sposa politicamente con la democrazia, fino ad arrivare all’ultimo scontro decisivo: la guerra contro il fascismo e il comunismo, assimilati nella comune definizione spregiativa di nemici della società aperta. Dopo la vittoria sul fascismo e sul comunismo, l’ideologia liberale finisce per dominare incontrastata. È in questa fase che “il senso della storia e del progresso [diventa] ormai quello di liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva.” Non bastano più allora l’individuo protestante e borghese o lo Stato sovrano. C’è bisogno di un ulteriore salto di qualità:

A questo punto, il capitalismo entra nella sua terza fase. A ben vedere, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Prima di tutto, il genere. In fondo, anche il genere è qualcosa di collettivo – sia il maschile che il femminile. Così, il passo successivo è stato la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Il genere doveva essere abolito, come tutte le altre forme di identità collettiva, già soppresse in precedenza. Da qui la politica gender, la trasformazione della categoria di genere in qualcosa di “opzionale” e dipendente dalla scelta individuale. Anche qui abbiamo a che fare con lo stesso nominalismo: perché doppia entità? Una persona è una persona in quanto individuo, mentre il genere può essere scelto arbitrariamente, proprio come da tempo si sceglie la religione, la professione, la nazione e lo stile di vita.

Questo spiegherebbe dunque l’attuale eco mediatica intorno al tema del gender, che è a sua volta il preambolo al successivo e forse definitivo passaggio: l’abolizione dell’umano, in quanto specie. Infatti l’uomo finirà con l’essere sostituito dal cyborg, dall’intelligenza artificiale, realizzando così il sogno (o piuttosto l’incubo) del transumanesimo. Tale è il punto d’approdo, la meta finale del liberalismo/globalismo. Così si compie il paradosso perfetto; l’individualismo borghese, nato col nominalismo e col capitalismo, finisce col provocare l’annientamento dell’individuo stesso, dissolto ormai nel globalismo: 

Ma qui la filosofia liberale approda a un paradosso fondamentale. La liberazione dell’individuo dalla sua identità umana, alla quale le politiche di genere lo preparano trasformando consapevolmente e intenzionalmente l’essere umano in un mostro perverso, non può garantire che questo nuovo essere mantenga un carattere individuale.

A questo punto il lettore si chiede: cosa poter opporre di fronte a un tale scenario?

Dugin risponde che al cospetto di questo Grande Reset si deve opporre un Grande Risveglio. E qui tornano in scena i resistenti, tra cui la Russia, in un ritratto che di sicuro ha contribuito a forgiare la visione putiniana: 

Questa missione è diametralmente opposta al progetto globalista del “Grande Reset”. Ed è naturale aspettarsi che nel loro slancio decisivo i globalisti faranno tutto ciò che è in loro potere per impedire un Rinascimento Imperiale in Russia. Proprio di questo abbiamo bisogno: di un Rinascimento Imperiale. Non per imporre la nostra verità russa e ortodossa ad altri popoli, culture e civiltà, ma per far rivivere, fortificare e difendere la nostra identità e per aiutare gli altri nel loro rinascimento, a fortificare e difendere la loro identità (per quanto è in nostro potere). La Russia non è l’unico bersaglio del “Grande Reset”, anche se per molti versi il nostro Paese è il principale ostacolo all’esecuzione dei loro piani. Ma questa è la nostra missione: essere il Katéchon, “colui che trattiene”, impedendo l’arrivo del Male finale nel mondo.

Queste in estrema sintesi le idee di Dugin, che hanno il merito di costruire un’interpretazione sintetica e originale di un’epoca storica, in sé così sfuggevole e amorfa. Nonostante ciò, queste idee risentono di un certo semplicismo, certamente necessario alla forma del Manifesto, che però lascia spazio a diverse obiezioni.

Se l’autore è conscio della forza in qualche modo spirituale e necessaria della storia, i cui singoli eventi e grandi agenti (Presidenti, Imperatori, movimenti…) non sono che degli emissari, delle facce casuali, perché descrivere tale Grande Reset, come una narrazione agita da alcuni rappresentanti umani (ovvero i liberal)? In fondo, già molti filosofi avevano prefigurato questi tempi come l’inevitabile paradiso della tecnica, che avrebbe sancito la graduale disumanizzazione dell’uomo.

A tal proposito, Dugin non considera che la rivoluzione linguistica e neurologica, scaturita da Internet, è più decisiva e stringente che qualunque decisione e manipolazione, voluta da singoli uomini. In questo senso, il filosofo si avvicina ad una rappresentazione manicheista, in stile QAnon (da lui più volte citato come esempio di versione grottesca di istanze reali), utile a fomentare l’immaginario popolare. A proposito di popolo, considerato come uno dei fondamentali agenti del Grande Risveglio. È possibile che il popolo, entità scomparsa da più di un secolo, incarni oggi altro se non lo spirito della massa?

Per concludere, forse il punto più alto dell’intero saggio resta nelle poche parole dell’esergo, prese in prestito da Heidegger: L’americanismo è il fenomeno storiografico del perire della modernità nella desertificazione. Rimanendo più ancorato a queste parole Dugin avrebbe evitato il binario parallelo dei dormienti cancellati e dei risvegliati rimanendo più vicino all’essenza di questo tempo. Un’essenza figlia del deserto e della necessità.