Il mio Ramadan a Milano: alla ricerca di una moschea che accolga le donne

Sono ripresi i riti del Ramadan in moschea. Per due anni i musulmani ne hanno patito profondamente la mancanza. La famiglia è stata il sostituto migliore: purché almeno un membro sappia recitare il Corano, purché vi siano due o più generazioni. Ma ci sono le famiglie i cui membri si trovano separati, famiglie che hanno poca familiarità con i riti, musulmani e musulmane che la famiglia non ce l’hanno affatto, o che hanno una famiglia non musulmana. 

Per tutti questo Ramadan ha significato tornare in moschea e fare i conti con quello che è cambiato. Per le donne significa fare i conti con la risistemazione degli spazi da esse fruibili. Io a Milano abito lungo  una linea di confine rappresentata da viale Stelvio: verso sud il quartiere Isola che fu popolare e ora è di lusso, verso nord  Dergano, Affori, Niguarda – vecchi quartieri operai e artigiani fatti di case di ringhiera, case di cooperative, cascinali che ancora sopravvivono, sacche di resistenza alla gentrificazione che la pandemia ha intensificato. E se in zona Isola è rarissimo vedere una donna col hijab, in questi quartieri sono talvolta perfino in maggioranza, come davanti alle scuole all’ora di uscita dei bimbi, mentre nelle macellerie halal vanno soprattutto gli uomini.     

E le moschee? Nelle nostre grandi città vi è per i musulmani una sorta di toponomastica parallela che si riferisce alla disolocazione delle moschee. Nella Grande Milano Cascina Gobba significa Moschea Mariam, la cui area è stata recentemente inserita nel Piano delle attrezzature religiose del Comune, Viale Jenner significa l’Istituto Culturale Islamico che da anni finisce sulle pagine dei giornali di destra, Segrate significa la storica moschea fondata da sheikh Abd Abdurrahman Pasquini da poco tornato a Dio che Egli ne abbia misericordia, Palasharp è il luogo che il comune di Milano ha offerto per la preghiera del venerdì, Dergano indica la moschea della comunità bengalese di fronte all’omonima fermata della metro. 

Tre anni fa, quando ero pendolare tra Roma e Milano, il mio giro di ricognizione durante il ramadan del 2019 mi aveva portato ad individuare due moschee tra le quali mi dividevo: quella di Dergano e quella di Cascina Gobba. La prima una moschea popolare, nel cuore della città, facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, frequentata da bengalesi e da egiziani (l’imam stesso era egiziano); la seconda una moschea borghese, caratterizzata dalla presenza siriana e dalla componente italofona. Spazi angusti la prima, il hammam un bagnetto che uomini e donne si dividevano a turni, la sala delle donne a cui si accede da un magazzino, troppo piccola per contenere pargoli urlanti il cui frastuono non mancava di infastire i loro padri separati da una sottile parete, e però con un ambiente estremamente caloroso ed accogliente, ed un gruppo di donne che eroicamente seguiva sul proprio libro la recitazione coranica in mezzo a chiacchiere femminili e strilli  infantili..

La seconda collocata in un bellissimo complesso, con ampi spazi puliti e ordinati, un giardino, sale per scuola ed eventi; un po’ isolata in uno spazio rurale è frequentata da famiglie che hanno l’automobile. Per tarawih fittissimi ranghi di donne riempiono la grande sala dove un’organizzazione rigorosa tiene in qualche modo a bada l’irruenza degli infanti. A Dergano, vicino a casa, potevo andare per al ishà, a Cascina Gobba, lontana, dovevo andare per l’iftar. Mi piacevano ambedue per motivi diversi.

Poi ci sono stati i due anni di lockdown e quando è finito ho scoperto che lo spazio per le donne della moschea di Dergano non c’era più. La moschea è stata risistemata, adesso c’è un hammam decente, ma la sala delle donne è stata definitivamente riconsegnata alla sua funzione di magazzino. Così mi sono messa alla ricerca di un’altra moschea “di vicinato”. Una manciata di piccole moschee molto vicine alla mia abitazione, frequentate da bengalesi, somali, italiani, si sono tutte rivelate prive di uno spazio per le donne.

Sono stata una paio di volte alla moschea della comunità turca, forse la più accogliente tra quelle che conosco: sembra una casa ed è certamente quella che tratta meglio le donne. Vi si coglie l’impronta del famoso Diyanet, il Dipartimento degli Affari religiosi turco, che per ramadan gli ha mandato addirittura un cuoco. Ma la zona di Porto di Mare, dove si trova, è pur sempre troppo distante da casa mia per poterci andare tutte le sere. Stavo già disperando e per puro scrupolo sono andata a vedere come stavano le cose in viale Jenner.

Ricordavo che lì lo spazio delle donne era poco più di un bugigattolo, ricavato come al solito dentro al magazzino. Il bugigattolo c’era ancora, quando arrivo dei bambini stanno facendo scuola ma la maestra mi indica il piano superiore dove scopro una sala per le donne così ampia e bene attrezzata che rimango stupefatta. Poi realizzo che abbiamo ereditato – alhamdulillah – la vecchia sala degli uomini che nel frattempo ne hanno acquisito una più grande.

A Viale Jenner sono migrate diverse donne che frequentavano Dergano. Ci scambiamo i contatti e scopriamo – sorpresa! – che il contatto di questa o quell’altra sorella lo avevamo già, risale a tre anni fa, inserito durante il ramadan precedente il lockdown che ha disperso la comunità. Allora dobbiamo chiederci come fare perché le moschee di vicinato, dove una certa mescolanza culturale e sociale riesce a farsi strada malgrado le resistenze sia del popolo sia delle elites musulmane, diventino punti di riferimento sul territorio, anche negli altri undici mesi dell’anno, anche per chi musulmano non è.