Chi parla di schiavitù per attaccare l’Islam ripassi la Storia dell’Occidente cristiano

Non è la prima volta che incappo in articoli-invettiva provenienti dalla destra cattolica in cui si denigra l’Islam rappresentandolo come una religione schiavista, mi sono sentito in dovere di rispondere.

I padri del cristianesimo, e soprattutto colui che ne è una delle colonne fondanti, l’apostolo Paolo di Tarso, non hanno mai condannato esplicitamente la schiavitù in quanto tale. Tutt’altro.

Nella lettera ai Colossesi 3: 18-22, san Paolo chiede ai servi di sottomettersi e di essere miti coi loro padroni. Così possiamo leggere: Voi servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. 

Non va meglio con san Pietro, che nella sua prima lettera 2: 18-25 dice così: Domestici, siate soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili. Traduzione italiana della Bibbia di Gerusalemme.

Per arrivare ad una prima esplicita condanna della schiavitù nel mondo cristiano, bisognerà attendere il quindicesimo secolo con le prime bolle papali sull’argomento. 

Servi e domestici nel mondo antico erano sempre e solo schiavi. Non esisteva un sistema di servitù salariata, così come lo conosciamo noi moderni. Nemmeno nella tradizione islamica e nel Corano, benché la liberazione degli schiavi sia spesso raccomandata e considerata uno strumento di espiazione per i peccati, è possibile trovare una condanna esplicita della schiavitù in quanto tale. 

Naturalmente questa mancata condanna spesso turba o scandalizza il lettore moderno, abituato a considerare la schiavitù come un’istituzione abominevole. Sfugge, come spesso capita a chi giudica il passato con i criteri a lui contemporanei, che in una prospettiva religiosa legata cioè all’eternità, non importa se cristiana o islamica, la vita terrena e la sua condizione fugace nel tempo, è un nulla nei confronti dell’eternità di salvezza o dannazione alla quale ogni essere umano è destinato. 

Essere schiavo o signore, mercante o soldato, contadino od operaio, relativamente al mondo che attende dopo la morte, è in fondo cosa di importanza trascurabile. Nel mondo antico, sia esso greco-romano come negli altri mondi extra europei, la schiavitù era diffusa e accettata, era un modo di vita, e soprattutto era una delle colonne portanti del sistema produttivo. Lavoravano quasi esclusivamente gli schiavi.

Quando il sistema schiavistico viene a decadere e piano piano scompare del tutto in Occidente? –Si tenga conto che anche il mondo medioevale cristiano si basava su un istituto, il servaggio della gleba, che alla schiavitù assomigliava.–  Quando, con lo sviluppo delle forze produttive, e soprattutto con la prima rivoluzione industriale, esso non solo non dà più benefici significativi al sistema sociale che su di esso si basa, ma diventa decisamente negativo, controproducente.

Uno schiavo, nonostante non mancassero padroni brutali e disumani, andava comunque nutrito, vestito, alloggiato, curato; con lui e con la sua famiglia spesso si creavano legami affettivi importanti. La storia della schiavitù nel mondo greco-romano e non solo abbonda di vicende di ex-schiavi diventati molto cari ai loro padroni e poi liberati. Uno schiavo non si poteva abbandonare al suo destino, se ad esempio per un motivo qualsiasi il lavoro veniva a mancare, o peggio, se si ammalava.

Tutta un’altra faccenda con un salariato. Il padrone, sia esso un latifondista agricolo o un proprietario di industria, corrispondeva al bracciante o all’operaio un salario che generalmente veniva calcolato su criteri di pura sopravvivenza fisica, dopodiché ciascuno era libero di fare ciò che voleva, anche di morire di fame, se per un motivo qualunque il lavoro veniva a mancare o se il salariato si ammalava e non poteva più lavorare. 

La storia della guerra civile americana, per esempio, è la storia di due mondi e soprattutto di due sistemi produttivi che confliggono: uno ancora basato sul lavoro servile degli schiavi neri impiegati nei grandi latifondi del sud degli Stati Uniti, l’altro su un travolgente sviluppo industriale che impiegava nelle grandi industrie manifatturiere del nord masse sempre crescenti di salariati, per lo più immigrati provenienti dal vecchio mondo europeo. 

Se si studiano o se si leggono testi sulla guerra civile americana, non importa se il famosissimo romanzo Via col vento, oppure un saggio storico ponderoso ma di grande valore, come la Storia della guerra civile americana del Luraghi, ci si rende conto che ogni lettura manichea di quella vicenda, di quella che fu di fatto la prima vera terribile guerra moderna, semplicemente non ha senso. 

Il Sud schiavista, che sovrastato da una potenza economica-industriale incomparabilmente superiore è costretto a cedere, ha i suoi valori che sono un senso cavalleresco della vita, l’amore per la terra, l’amore per un mondo agricolo che verrà distrutto e violentato. Il Sud pagherà molto duramente la sconfitta subendo a lungo un vero e proprio regime di occupazione militare. 

Certo la storia della schiavitù, soprattutto dell’infame commercio di carne umana che per secoli devastò il continente africano, è una storia criminale; storia nella quale le mani se le sono sporcate senza distinzioni sia gli europei, generalmente di religione cristiana, sia gli arabi musulmani. 

Tendiamo però a dimenticare che anche la rivoluzione che, per dirla con Marx, di fatto relegò nella pattumiera della storia l’istituto della schiavitù, cioè la rivoluzione industriale con il suo travolgente sviluppo delle forze produttive che portarono al mondo che oggi conosciamo, ebbe i suoi orrori. 

Si pensi solo al mondo descritto nei romanzi di Dickens. Si pensi alla distruzione della civiltà contadina, allo sradicamento di masse enormi dalle campagne e allo sviluppo di mostruose megalopoli.