Berlusconi: il re del divertissement infinito 

Riposa in pace Berlusconi ché poca tregua avrà la tua immagine, ora che finalmente sarà possibile raffigurarti. Finora chiunque abbia provato a rappresentarti ha fallito. Registi, sceneggiatori, comici o scrittori, tutti rimasti ben lontani dalla potenza evocativa dell’originale.

Semplice, perché Berlusconi è rappresentazione – forse la più incisiva di fine Novecento – e a rappresentare una rappresentazione non si fa altro che fingere o sottrarre. Potevi ridere di lui, odiarlo, invidiarlo, ammirarlo o temerlo; in ogni caso eri tu ad entrare nell’universo delle sue finzioni, eri tu costretto a spostarti nelle vicinanze della sua aura, impossibile invece ridurre lui a una costola del tuo immaginario. E se ci provavi, immediato cadevi nel moralistico, nel ritratto posticcio di chi lo usava come semplice maschera per incidere una volta ancora la linea che separa il bene dal male.

Invece no, Berlusconi è un pezzo, piuttosto importante, dell’immaginario di ogni italiano, cui inesorabili si attaccano ricordi, rancori, desideri, incesti, scuse e colpe, che lontane affondano le radici nel mito del selfmade man americano.

Dunque il vero primo, nostrano uomo che si fa da sé. Ché prima erano tutte figure uscite da una mescolanza di aristocrazia e borghesia o da ambienti politici ancora inclini all’ideologia. E lui Berlusconi, davvero voleva fà l’americano, e ci riesce così bene da finire proprio lui con l’ispirare e ammodernare il loro stesso mito (Trump che vuole fà Berlusconi…).

Certo, si fa da sé si fa per dire, perché il vero uomo di successo italiano non può mai evitare qualche sosta, breve o lunga che sia, dalle parti delle logge massoniche o di qualche potere mafioso. Così ha inizio la scalata di un ragazzo con i crismi dell’uomo d’azione, capace di benedire il denaro col cemento, l’editoria col calcio, la televisione con la politica. Benedire in fondo l’azione col potere, anche se qualcosa non gli tornava: la vecchia verticale Dio-Patria-Famiglia era comunque un’ideologia e lui le ideologie non le ha mai sopportate.

Allora seguendo un naturale movimento del corpo e degli investimenti, la verticale si è capovolta: Io-Famiglia-Patria-Dio. La base di tutto, di ogni santa cosa dev’essere un ego concentrico in un perenne moto d’espansione. Non basta un semplice capo, capace d’incarnare i valori di una nazione e di un popolo; quel che ci vuole è un io ipertrofico capace di modellare la famiglia, di plasmare la patria fino a diventare dio di se stesso. In fondo il suo sogno non è mai stato quello di comandare gli italiani, ma che gli italiani condividessero il suo sogno – un’infinita replicazione di io che si fanno da sé.

Ecco a voi uno dei tanti fraintendimenti moralistici di chi ha ridotto la sua ascesa politica alla personale e conflittuale difesa dei propri interessi. Vero in parte, ma di sicuro lui, il Cavaliere, non ha mai smesso di credere alla perfezione della sua litote metafisica: che la parte (Berlusconi) sarebbe diventata il tutto (gli italiani). E non tanto per comandare, quanto per essere. Essere come?

Spregiudicati, simpatici, attraenti, carismatici, donnaioli, vanesi, compagnoni, vincenti, farabutti, frivoli, ambiziosi… Così per una trentina d’anni la politica del quotidiano si è adagiata tutta intera intorno alla sua figura, perché chi lo odiava o lo amava in fondo stava facendo i conti con una parte di sé. Il dibattito pubblico si è trasformato man mano in conflitto privato. Chiunque poteva riconoscere, consciamente o inconsciamente, di avere al proprio interno un tratto berlusconiano da assecondare o da scacciare. Ecco perché non bisogna rappresentare una rappresentazione, cosa che proprio lui ci ha insegnato quando è asceso da re dell’intrattenimento a re di fatto, trasformando la politica in cabaret e il cabaret in cosa seria, rendendo finalmente omaggio alla nascente postmodernità. Il perfetto re postmoderno, figlio del re di Pascal.

Il filosofo e mistico francese ha, circa quattro secoli fa, disegnato una delle metafore più efficaci della condizione umana: il re privo del suo divertissement. L’uomo senza Dio è in sintesi un re privato di ogni sua distrazione, spinto finalmente a provare noia, grazie alla quale scoprirebbe dentro di sé un vuoto impossibile da colmare, una condizione di assoluta inutilità.

Berlusconi è andato oltre, li ha fabbricati con le proprie mani i suoi divertimenti, li ha creati ex novo, ha comprato una corte in grado di produrre intrattenimento senza pausa alcuna per ambire all’infinito – all’era dell’infinito divertimento – e la noia è stata scacciata fino alla fine, fino all’ultima parola biascicata da labbra ormai senza carne, sostenute da un corpo tenuto in vita come plastico di un vecchio sogno giovanile. È impossibile allora non provare pietà nei confronti di chi vede morire il proprio io come ultimo personale segno di Dio.