L’islamofobia mediatica e quell'”islamico” metafisicamente bisognoso di integrazione

I punti fermi dell’“occidentalismo” sono pochi, inossidabili e facilissimi da enucleare con un rapido esame del contenuto delle comunicazioni mediatiche in tema.

In sostanza, il cosiddetto “Occidente” ed i suoi “valori”, tutti sostanzialmente riconducibili alla dittatura del mercato e della mercantilizzazione di ogni rapporto sociale vengono presentati come metafisicamente buoni. 

Qualunque cosa sia percepita come opposizione ad essi, qualunque volto abbia, di qualunque mezzo si serva, viene presentata come metafisicamente malvagia: l’“islam”, così come viene inteso dal deafferentato sistema mediatico che detta legge per i sudditi dello Stato che occupa la penisola italica, rappresenta solo un caso tra i tanti.

Questa insistente visione di fondo viene veicolata da contenuti mediatici di incredibile ed insultante miseria concettuale, condita con una malafede inamovibile, e giovandosi di strategie di presentazione che salvano l’apparenza del contraddittorio scegliendo con cura testimonial e fonti di altra provenienza tra i soggetti meglio presentabili come non credibili, non esperti, non affidabili. Il tutto, lo si ricordi, in un contesto in cui la libertà dei mass media è da decenni ridotta ad una barzelletta, ammesso che sia mai esistita.

In considerazione di quanto sopra, e soprattutto della postulata ed irriducibile malvagità di ogni avversario unita al fatto che le regole del mercato alla base del funzionamento di giornali e televisioni passano sistematicamente sopra ad ogni altra considerazione, la propaganda “occidentalista” presenta a getto continuo emergenze inventate, falsi colpi di scena, cazzate senza l’uguale travestite da Editti per il Buon Governo. Oltre ad assicurare il costante funzionamento del baraccone che dà il pane ai sei quinti di loro, gli operatori mediatici d’orientamento “occidentalista” contribuiscono in misura determinante al funzionamento della fabbrica della paura, ed a quella labilità della memoria su cui tanto si basano le democrazie da esportazione.

Il “problema islamico” creato a tavolino postula che gli “islamici” – qualunque cosa s’intenda con un termine simile – siano metafisicamente e geneticamente bisognosi di “integrazione”, “integrazione” sulla quale è più che lecito essere scettici, stante la malvagità metafisica su accennata. 

Ora, il vocabolo integrazione va qui inteso come il risultato di un processo di abdicazione ad ogni proprio principio e ad ogni propria abitudine che non si adatti perfettamente con l’offerta del mercato. Da attuare, si badi bene, sotto puntuale verifica ad opera di mezzibusti a ciò addetti, pronti a denigrare in prima serata davanti a sessanta milioni di persone chiunque non abbia in regola le carte per le quali le regole cambiano ogni giorno, e vengono decise col criterio puro e semplice di additare sempre qualcuno (possibilmente povero) alla quotidiana voglia di linciaggio espressa da un aggregato di individui viziati e piccini al di là delle previsioni più nere.

Postulare la dedizione al Male da parte degli “islamici” porta a volte a risultati mediatici molto al di là del pazzesco, come l’allucinante vademecum per riconoscere un “terrorista” pubblicato nel 2005 dal Corriere della Sera. 

L’industria della demonizzazione, tuttavia, è troppo redditizia e produce dividendi anche elettorali troppo allettanti perché ci si degni di fare l’unica cosa sensata, ossia di buttarla a mare.

Stanti queste premesse, e chiari questi intenti, è comprensibile che chi riesce ad avere nonostante tutto un minimo di rispetto per sé stesso eviti nella misura del possibile una “integrazione” che è, nei fatti, una gogna. 

Ignorando a bella posta l’esercito di lavoratori immigrati che si spezzano la schiena dalla mattina alla sera – ai quali l’“Occidente” offre da sempre fringe benefits ormai estesi anche a chi è suddito per nascita quali mutui capestro, affitti pazzeschi, precarietà per default – i media “occidentalisti” insistono indefessi sul minimo episodio di cronaca che sia possibile presentare, o più spesso manipolare, come conferma delle proprie tesi. 

I casi sono innumerevoli, tanto da far emergere con chiarezza il processo standard di distorsione applicato in questi casi. Ogni volta che è possibile, l’autore di quello che il codice penale considera un crimine viene presentato come “maghrebino”, “islamico”, eccetera fin dal titolo; il corpo dell’articolo procederà poi per sommi capi e con frasi spicce a connotare negativamente l’intera esistenza dell’autore del fatto di cronaca, qualunque esso sia: deve essere chiaro che per gli “occidentalisti” esiste una correlazione precisa tra appartenenza etnica e propensione al delinquere, dunque è lecito e doveroso additare al pubblico che l’intera esistenza quotidiana di questi individui è volta al Male in ogni suo istante, in ogni sua abitudine.

 Il fatto che le persone mandate alla ghigliottina dai quotidiani solitamente abbiano poca dimestichezza con la lingua e con i loro diritti fa sì che il gioco funzioni sempre molto bene: lo stesso sistema, applicato invece ad un qualunque potente nostrano, attirerebbe sui suoi autori le ire di uno stuolo di avvocati. Comunque siano andate le cose, con il colpevole (“presunto” giusto per cortesia) consegnato al braccio secolare e fatto sparire dai mass media a tempo di record, la vicenda si chiude e viene sostituita da quella successiva; rammentare che esistono una presunzione di innocenza e gli errori giudiziari vale soltanto per i ricchi e, qualche volta, per i sudditi “occidentali” per nascita.

I pochi che sanno sottrarsi al rimbombare continuo della grancassa “occidentalista”, e che magari hanno un po’ di spirito critico in più, non hanno problemi a sottrarsi alle vergognose e razziste attribuzioni causali propinate dai giornali, ed intravedono invece la causa di tanti comportamenti estremi nell’alienazione culturale divorante che in “Occidente” è conditio sine qua non per la concessione dell’ambita patente di suddito affidabile. L’impatto con la realtà “occidentale” è, nei fatti, devastante per molte persone. 

L’isolamento sociale, l’individualismo imposto come un dogma, la diffusione ubiqua di ogni genere di droghe in un contesto dominato (sulla carta) da un proibizionismo ridicolo, i comportamenti fintamente trasgressivi – e funzionalissimi al mercato – incoraggiati in ogni sede producono danni sostanziali ed evidenti perfino negli stessi “occidentali”; chi, nato in contesti un po’ più normali ed allontanatosi non per chissà quale bieco intento invasore, ma semplicemente per assicurare una vita sopportabile alla sua famiglia prima e ancora che a sé stesso, deve affrontare una quotidianità alienata e folle con risorse economiche ridotte all’osso e senza neppure la rete di sicurezza rappresentata dal residuo di rapporti sociali che i sudditi nativi riescono ancora a tessere, nonostante l’avere relazioni sociali non mediate dal denaro sia in “occidente” oggetto di continua dissuasione.

A queste condizioni ed a questo prezzo, per quale motivo un individuo consapevole dovrebbe accettare una “integrazione” che lo stritola?